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Corte di Cassazione: sentenza del 9 febbraio 1995 (quarta parte)

Tratto da: Cd Juris Data, Sentenze della Cassazione Penale, testo integrale, 1995-1998 I° sem., Giuffrè Editore.

Ricerca a cura di Floridi L.

 

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2. L'esame del merito

Terminato l'esame delle eccezioni procedurali, ritiene la Corte di dovere premettere alcune considerazioni di ordine generale su questioni che si riproporranno ripetutamente nel corso dell'esame dei singoli casi, e la cui soluzione appare pregiudiziale alla soluzione delle fattispecie concrete.

2.1. Il problema della religiosità di Scientology

La prima di tali questioni riguarda il problema della religiosità della chiesa di Scientology. Ed infatti, l'obiezione fondamentale mossa da tutti i ricorrenti sin dalle prime battute del presente procedimento, e reiterata nei vari ricorsi, è che si volesse processare una religione, solo perché diversa da quelle ufficiali; e che in tal modo si intendesse limitare quel diritto di «professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata», tutelato dall'articolo 19 della Costituzione.

In quest'ottica sono stati redatti, almeno in parte, numerosi motivi di ricorso (motivi nn. 3, 4 e 11, avvocato "L."; motivo n. 5, avvocato "D."; motivo n. 8, avvocato "V."; motivo n. 9, avvocato "S."; motivo n. 2, avvocato "P.") nei quali si lamenta sostanzialmente che i giudici di merito avrebbero errato ad esercitare controlli ovvero ad esprimere giudizi sulla conformità dei metodi della chiesa di Scientology ai principi del nostro ordinamento, dal momento che una simile investigazione costituirebbe una indebita interferenza in quella libertà di professare una fede religiosa, garantita da norme costituzionali.

Tali doglianze sono destituite di fondamento, anche se questa Corte non ritiene del tutto corretto il ragionamento effettuato dal giudici di secondo grado per respingerle. Va, anzitutto, osservato che questi ultimi hanno chiarito di non avere voluto «in alcun modo processare la chiesa di Scientology per le sue idee ovvero per avere svolto una determinata attività (come le sedute di 'auditing' o i corsi di 'purification' ovvero gli altri corsi menzionati)», e di non avere inteso «addentrarsi nei più reconditi significati che queste pratiche possono avere avuto», ma di essersi limitati ad «accertare se sia conforme al nostro ordinamento il metodo adottato nello svolgimento delle predette attività» (pagina 75 sentenza Corte di appello). Ed infatti, per i giudici della Corte di appello non avrebbe «alcun rilievo né interesse stabilire l'esatta natura delle idee professate da quell'associazione, siano esse filosofiche, religiose o meramente culturali, ovvero non abbiano alcuno di questi requisiti»; e ciò in quanto sarebbe «del tutto indifferente per il nostro ordinamento giuridico che le dottrine esposte sin dagli anni 50 da Ron Hubbard possano qualificarsi o meno come una religione, dal momento che dette dottrine ricevono in ogni caso, come qualsiasi altra manifestazione del pensiero, tutela nel nostro ordinamento» (pagina 77 sentenza Corte di appello).

Sennonché tale affermazione non pare sia condivisibile, giacchè v'è una non trascurabile differenza tra la tutela costituzionale del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione, prevista dall'articolo 21 della Costituzione e la tutela delle confessioni religiose e della libertà di religione, prevista dagli articoli 8, 19 e 20 della stessa Carta costituzionale. Alcune norme del nostro ordinamento giuridico - come quelle di natura tributaria di cui al capo di imputazione n. 40 - stabiliscono, infatti, particolari agevolazioni per le confessioni religiose; conseguentemente è necessario che la pubblica amministrazione ovvero - in caso di controversia - che gli organi giurisdizionali accertino se un gruppo di persone, che si autoqualificano come appartenenti ad una confessione religiosa, rivestano effettivamente tale qualità, ovvero se non si tratti di gruppi che, facendo leva sul desiderio di religiosità diffuso, perseguono interessi personali dei loro fondatori o amministratori.

Certo, in mancanza di una definizione legislativa del concetto di confessione religiosa - controverso anche in dottrina, che non è riuscita ad elaborarne una definizione unanime - il compito dell'interprete non è semplice; ma ciò non toglie che tale sforzo debba essere compiuto tutte le volte in cui siffatto accertamento è necessario ai fini della decisione; ed a tale scopo sembra opportuno fare riferimento ad una recente pronuncia della Corte Costituzionale sul tema.

Con sentenza n. 195 del 27 aprile 1993, il suddetto organo giurisdizionale - nel dichiarare l'illegittimità di alcune norme regionali che limitavano alcune sovvenzioni per l'edilizia di culto alle sole confessioni religiose che avevano stipulato un'intesa con lo Stato, ai sensi dell'articolo 8, comma 3, della Costituzione ha enucleato alcuni indici utili per riconoscere le realtà autenticamente confessionali. La suddetta sentenza ha, infatti, riaffermato che «per l'ammissione ai benefici non può bastare che il richiedente si autoqualifichi come confessione religiosa»; ma ha precisato, al contempo, che «nulla quaestio quando sussista un'intesa con lo Stato», e che «in mancanza di questa, la natura di confessione potrà risultare anche da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri, o comunque dalla comune considerazione». Gli indici suddetti non sono sicuramente esaustivi e riecheggiano alcune posizioni dottrinali, per le quali possono essere avanzati gli stessi dubbi che sono stati formulati per le rispettive tesi di riferimento; essi lasciano, inoltre, un ampio margine discrezionale all'interprete, che è libero di elaborarne altri; ma rappresentano comunque un punto di partenza per affrontare il tema della religiosità o meno di un gruppo che si autoqualifica come "confessione" o "chiesa".

Ora, come si è cennato, i giudici della Corte di appello di Milano non si sono mossi in questa direzione, e non hanno affrontato in maniera diretta il tema della religiosità della chiesa di Scientology, anche se hanno affermato che questa «si è manifestata nella sua essenza, sin dall'inizio come un'attività commerciale, volta alla vendita, con tutti i metodi previsti dai manuali in materia, di un determinato prodotto, attività in ogni caso più che lecita e di per sé non costituente in alcun modo una associazione per delinquere» (pag. 83 sentenza Corte di appello). Quest'ultima affermazione dei giudici di merito farebbe pensare che, per gli stessi, Scientology non è una chiesa o una confessione religiosa. Senonchè tale affermazione è priva di motivazione che faccia riferimento agli "indici" di cui alla sentenza della Corte costituzionale citata, giacché, in ogni caso, un'eventuale attività di tipo commerciale - anche se di vaste proporzioni svolta da una chiesa «non è sufficiente a farle perdere la connotazione di "confessione religiosa"» di cui all'articolo 8 della Costituzione.

Peraltro, l'accertamento della religiosità di Scientology sarebbe stato, nel caso concreto, rilevante non solo con riferimento ai reati tributari, ma anche con riferimento al reato di cui all'articolo 416 C.P. e ciò perché, una volta riconosciuto a Scientology il carattere di confessione religiosa, non sarebbe ipotizzabile una trasformazione di questa in un'associazione per delinquere, a meno che tutti i membri della chiesa non avessero, di comune accordo, cambiato le regole statutarie, dando vita ad un soggetto nuovo e diverso da quello originario. Mentre sarebbe ipotizzabile quanto sostenuto dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Milano, e cioè «che nell'ambito di un'attività lecita dell'organizzazione, potrebbe essere sorta, in modo distinto ed autonomo, una associazione illecita» (pagina 111 sentenza Corte di appello).

Quanto sopra affermato non significa, tuttavia, che ogni "chiesa" o confessione religiosa possa, nel nostro Paese, agire liberamente, violando impunemente le leggi penali; la libertà religiosa non si presenta, infatti, nell'ordinamento giuridico italiano come una libertà sconfinata e non soggetta, quindi, ad alcun freno. Ed anzi, essa incontra sempre sia quei limiti fondamentali che costituiscono le condizioni imprescindibili per la realizzazione di una pacifica convivenza dei singoli nel corpo sociale, sia quei limiti che sono imposti dalla civiltà stessa e dai valori essenziali ed inderogabili che alla medesima si accompagnano e che informano e compenetrano l'ordinamento giuridico positivo.

Tali limiti sono modesti, ma sussistono, come risulta del resto confermato anche da una disamina superficiale delle norme positive vigenti. Ed infatti, è la stessa Costituzione, all'articolo 19, ad apporre un primo limite generale, quello del "buon costume", al diritto di professare liberamente la propria fede religiosa; peraltro, l'espressione "buon costume", ad avviso di questa Corte, non può essere intesa nel senso penalistico di osceno o contrario alla pubblica decenza, ma in quello più ampio, di attività conforme ai principi etici che costituiscono la morale sociale, in quanto ad essi uniforma il suo comportamento la generalità delle persone oneste, corrette, di buona fede e di sani principi, in un determinato ambiente ed in una determinata epoca.

Ma oltre al limite generale del "buon costume", costituiscono altrettanti indubbi limiti alla liceità delle attività religiose: a) il rispetto per la persona umana nei suoi così detti "diritti personalissimi", quali trovano la loro previsione costituzionale nella garanzia da questa assicurata ai diritti inviolabili dell'uomo nello sviluppo della sua personalità e della pari dignità sociale; b) la tutela della "salute", espressamente prevista dall'articolo 32 della Carta costituzionale; c) nonché le prescrizioni relative a quei principi che appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana, ed ai quali devono conformarsi anche quelle norme che godono di una particolare "copertura costituzionale", come le disposizioni del Concordato (si veda a tal proposito la sentenza della Corte costituzionale, n. 1146 del 1988).

Dunque, ad avviso di questa Corte, non può dubitarsi che il diritto di libertà religiosa non possa essere esercitato con azioni in contrasto con valori e interessi aventi la stessa rilevanza costituzionale della libertà religiosa stessa o, comunque, compiendo fatti che siano previsti dalla legge come reato, e la cui commissione costituisca anche una violazione delle norme e dei principi di cui si è appena detto, oltre che del "buon costume" previsto dall'articolo 19 della Carta costituzionale. Ed anzi, se più persone dovessero riunirsi e fondare una "chiesa", prevedendo nello statuto riti o comportamenti contrari a tali norme e principi ed integranti, al contempo, gli estremi di fatti penalmente perseguibili, costoro - a prescindere dalla commissione dei singoli reati - si renderebbero in ogni caso responsabili del delitto di associazione per delinquere, per la cui sussistenza è irrilevante l'eventuale mancata consumazione dei delitti programmati.

Alla stregua delle superiori argomentazioni appare evidente che le doglianze dei ricorrenti, secondo cui il procedimento penale in questione sarebbe stato iniziato «per processare una religione diversa da quelle ufficiali», sono totalmente destituite di fondamento; e che non possono, del pari, trovare accoglimento le censure specifiche mosse dall'avvocato "L." con il terzo (nullità della perizia sull'E meter perché prova acquisita in violazione dell'articolo 19 della Costituzione e quindi dell'ordinanza di rinvio a giudizio), il quarto (nullità dell'istruttoria in relazione all'articolo 416 C.P. e della perizia sull'E meter per violazione degli articoli 7, 8 e 19 della Costituzione) e l'undicesimo motivo di ricorso (esercizio da parte del giudice di potestà non riconosciute dalla legge); appare, inoltre, in maniera altrettanto evidente che non sussistono i vizi di illegittimità costituzionale denunciati pure dall'avvocato "L." (vedi pag. 20 motivi).

2.2. Il problema del concorso morale

La seconda considerazione di carattere generale riguarda il problema del concorso morale dei dirigenti di Scientology nei reati commessi da altre persone facenti parte dell'organizzazione. Ed infatti, molti episodi criminosi erano stati contestati oltre che agli autori materiali, anche a quelle persone che - all'epoca dei fatti - rivestivano la qualità di presidenti o vice presidenti della "chiesa" sul rilievo che costoro avrebbero dovuto rispondere del fatto delittuoso, a titolo di concorso morale.

Il Tribunale aveva, però, escluso la colpevolezza di questi imputati, ritenendo che non vi era la «prova che essi avessero materialmente partecipato a tali delitti o che in qualche modo avessero moralmente concorso alla loro commissione»; e ciò anche in base al rilievo che i fini dell'associazione, così come indicato nello statuto, erano perfettamente leciti, e che i prevenuti avevano negato che qualsiasi operatore potesse avere agito in modo delittuoso in base a disposizioni ricevute dal rappresentanti dell'organizzazione.

Lo stesso Tribunale, inoltre, aveva respinto la tesi del Giudice istruttore, il quale aveva ravvisato la responsabilità dei presidenti e dei vicepresidenti di Scientology a titolo di dolo eventuale per avere accettato il rischio che i singoli operatori, nell'attuare le direttive di Hubbard, potessero spingersi sino a violare la legge penale, giacchè sarebbe «evidente che i presidenti ed i vicepresidenti ed in genere i responsabili di un'associazione non possono essere ritenuti responsabili della degenerazione della condotta delle persone che operano per l'associazione stessa, degenerazione che come tale è frutto dell'iniziativa individuale» (pagine 316-317 sentenza Tribunale).

I giudici della Corte di appello, invece, sono giunti a conclusioni diverse, facendo proprie, anzitutto, le considerazioni del pubblico ministero, il quale aveva evidenziato:

  • «che i legali rappresentanti dell'ente erano persone che avevano sempre rivestito posizioni di rilievo ai vertici dell'organizzazione in Italia;

  • che molti di essi avevano lavorato nell'associazione fin dalla sua iniziale costituzione e quindi avevano svolto per un tempo apprezzabile diverse funzioni al suo interno;

  • che ad essi, comunque, quali membri del consiglio direttivo, spettavano compiti di un certo peso: essi, infatti, dovevano esaminare le domande di ammissione di nuovi iscritti e quindi necessariamente valutare l'esito del test sulla personalità, e comunque di formulari sui precedenti psicopatologici dei richiedenti, onde indicare il corso più idoneo da seguire;

  • che ulteriori compiti del consiglio consistevano nell'assumere i collaboratori e nel controllare l'esatta osservanza delle regole e degli scopi di Ron Hubbard;

  • che l'organizzazione era strutturata in modo estremamente verticistico;

  • che le vicende di ogni iscritto erano accuratamente riportate in fascicoli (folders), arricchiti di ogni particolare riguardante il soggetto, riferito man mano da appartenenti ai vari uffici, segno che detti fascicoli, con le notizie riguardanti ogni iscritto, circolavano ed erano seguiti in modo completo ad ogni livello;

  • che, quindi, l'intervento dei capi dell'organizzazione consentiva di completare l'iter che portava ai rilevantissimi versamenti di denaro ad opera di persone palesemente incapaci o sottoposte a violenze e minacce ovvero raggirate» (pag. 182, sentenza Corte di appello).

Ma i giudici del secondo grado a tali considerazioni del rappresentante della pubblica accusa hanno aggiunto che potevano rispondere a titolo di concorso morale solo quelle persone che «avevano oltre alla carica legale, anche un ruolo effettivamente direttivo nell'ambito dell'organizzazione», e sempre che sussistesse un qualche ulteriore elemento «idoneo a legare l'imputato al singolo caso» (pagg. 183-184, sentenza Corte di appello).

Ciò premesso, osserva la Corte che le osservazioni del pubblico ministero, fatte proprie dai giudici della Corte di appello, si limitano ad indicare le ragioni per le quali si potrebbe presumere che i dirigenti di un'associazione debbano essere a conoscenza delle attività compiute dalle persone ad essi sottoposte, ma tale presunzione, se può avere un qualche valore per organizzazioni di modesta entità, ne ha assai meno in presenza di enti di vaste proporzioni - come la chiesa di Scientology - i cui dirigenti non sempre possono controllare l'operato dei dipendenti. Della questione si è già occupata la giurisprudenza di questa Corte, affrontando sia la problematico della responsabilità concorsuale dei dirigenti di un'azienda per le attività compiute dai loro sottoposti, sia quello della responsabilità concorsuale dei capi di un'associazione criminosa per i delitti scopo rientranti nel programma delinquenziale.

Ebbene, con riferimento alla prima ipotesi si è stabilito che «in caso di affidamento dell'organizzazione produttiva di un'azienda a soggetti diversi, l'eventuale responsabilità penale per contravvenzione non si estende automaticamente ai titolari o contitolari dell'impresa unicamente in funzione di tale qualità, ma occorre sempre accertare, caso per caso, se sussista la compartecipazione al fatto reato, o per dolo, o per colpa o perché sussista la possibilità di controllo o per altri elementi emergenti dal processo (fattispecie relativa alla società Standa)» (Cass. pen., sez. III, 6 dicembre 1974, Cenisti; cfr. anche: Cass. pen., sez. VI, 6 aprile 1976, Tanoni).

Ed a tale giurisprudenza questa Corte ritiene di dovere aderire. Ma anche in ordine al problema della responsabilità concorsuale dei capi di un'associazione criminale per delitti commessi dai partecipanti all'associazione, la giurisprudenza, occupandosi della così detta criminalità politico terroristica, si è spesso espressa aderendo a principi simili a quello sopra enunciato; in particolare le Sezioni unite di questa Corte, occupandosi di fatti terroristici verificatisi in Alto Adige, ebbero a stabilire che la posizione preminente di capo o dirigente «non autorizza logicamente, di per sé sola, la presunzione che tutto quanto compiuto dalle squadre di azione sia stato ordinato dai capi, ma (...) occorre la prova specifica dello specifico mandato emesso di volta in volta» (Cass. pen., sez. un., 18 marzo 1970, Kofler e altri). Ed, allo stesso modo, per i delitti commessi nei così detti "anni di piombo" dalle "Brigate rosse", dopo alcune esitazioni, l'elaborazione giurisprudenziale del problema si è incanalata in una prospettiva di continuità rispetto all'approccio su indicato, ed ha distinto nettamente tra la posizione anche gerarchicamente preminente occupata in un'associazione criminosa, e la responsabilità a titolo di concorso morale nei reati fine; muovendosi in questa direzione, la Cassazione ha, perciò, stabilito che per aversi responsabilità a titolo di concorso è necessario dimostrare che il singolo associato abbia anche voluto lo specifico reato fine apprestandovi consapevolmente un contributo causale (cfr.: Cass. pen., sez., 14 febbraio 1984, Segrebondi; Cass. pen., sez, 31 maggio 1985, Pecchia; Cass. pen., sez., 30 novembre 1989, Picciafuoco).

Dunque, correttamente i giudici del secondo grado hanno, in linea di principio, ritenuto che avrebbero dovuto pervenire all'assoluzione dei concorrenti morali tutte le volte in cui non fossero stati ravvisati altri elementi al di fuori di quelli indicati dal rappresentante della pubblica accusa; e che, invece, avrebbero dovuto condannare quando fosse stato configurabile anche un elemento di specifico collegamento tra l'imputato ed il fatto. Tale specifico elemento di collegamento, tuttavia, in conformità alla su citata giurisprudenza di questa corte, per giustificare una condanna a titolo di concorso morale, non si deve limitare a rafforzare la presunzione cui si è fatto cenno, ma deve essere idoneo a dimostrare sia che l'imputato ha, con il suo comportamento, fornito un contributo causale alla verificazione del fatto, sia la sua volontà di cooperare nel reato. E poiché - come meglio si vedrà nel prosieguo della trattazione - i giudici della Corte di appello, in alcuni casi, hanno ravvisato in circostanze inidonee allo scopo da loro stessi enunciato, quegli utili elementi di collegamento al quali si erano riferiti, sono stati presentati numerosi motivi di ricorso proprio sul tema specifico della responsabilità a titolo di concorso morale nel reato commesso da altri (motivo n. 13, avvocato "L."; motivo n. 9, avvocato "V."; motivo n. 10, avvocato "S."; motivo n. 1, avvocato "B.").

Tali motivi - per la ragione su enunciata - sono in parte fondati e saranno presi in considerazione quando verranno trattate le singole fattispecie criminose. Ma i motivi suddetti sono in parte fondati anche per un'altra ragione: la sentenza impugnata viola in più punti l'articolo 192 del codice di procedura penale del 1988, che - nella specie - è applicabile, giusto il disposto dell'articolo 245 del D.G.L. 28 luglio 1989, n. 271 (norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale). Il comma 2 del menzionato articolo 192, dispone, infatti, che «l'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi, a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti». Tale norma stabilisce, dunque, che in assenza di prove dirette il giudice, nel libero processo di formazione del suo convincimento, può fondare legittimamente il giudizio di responsabilità su prove indirette (indizi) purchè dall'analisi critica delle risultanze processuali esaminate nella loro concatenazione logica si possa prevenire, per l'univocità e convergenza delle stesse, ad una soluzione di certezza. Occorre cioè che gli elementi indiretti, giudizialmente accertati, costituiscano la sicura premessa di un sillogismo, in forza del quale sia possibile pervenire con rigore logico ad un giudizio di certezza del fatto ignoto (Cass. pen., sez. II, 5 marzo 1991, Belleri).

Da tale principio consegue che la circostanza assumibile come indizio deve, perché da essa possa essere desunta l'esistenza di un fatto, essere certa. Tale requisito benché non espressamente indicato dal menzionato articolo 192 c.p.p., è da ritenersi insito nella previsione di tale precetto; con la certezza dell'indizio, infatti, viene postulata la verifica processuale circa la reale sussistenza dell'indizio stesso, posto che non potrebbe essere consentito fondare la prova critica (indiretta) su un fatto verosimilmente accaduto, supposto o intuito, inammissibilmente valorizzando - contro indiscutibili postulati di civiltà giuridica - personali impressioni o immaginazioni del decidente (Cass. pen., sez. VI, 13 dicembre 1991, Grillo e altro). Dunque, se il giudice può, partendo da un fatto noto, risalire da questo ad un fatto ignoto, non può in alcun caso porre quest'ultimo come fonte di un'ulteriore presunzione, in base alla quale motivare una pronuncia di condanna. La così detta praesumptio de praesumpto inammissibile anche nelle controversie civili (cfr: Cass. civ. sez. I, 17 febbraio 1986, n. 934; Cass.. civ., sez. I, 28 gennaio 1874, n. 217), in nessun caso può costituire un indizio «grave, preciso e concordante», idoneo a giustificare una condanna dell'imputato.

Ed invece, nella specie, i giudici della Corte di appello di Milano hanno fatto riferimento, in molti casi, proprio ad una [praesumptio de praesumpto] al fine di affermare la responsabilità penale dei vari prevenuti. Ciò si è verificato, ad esempio tutte le volte in cui essi hanno ritenuto che gli imputati quali si trovavano ai vertici dell'associazione «non potevano non avere avuto conoscenza» di una determinata pratica e quindi dei metodi adottati dai singoli operatori. Tale ragionamento, per le ragioni prima esposte, deve essere censurato perché in violazione dei principi stabiliti dall'articolo 192 c.p.p.: ed infatti, i giudici di secondo grado, partendo dalla osservazione che i dirigenti di Scientology non potevano - per la posizione rivestita all'interno della chiesa - non essersi occupati dei singoli casi (presunzione semplice), hanno ricavato, come ulteriore conseguenza di tale deduzione, che metodi degli operatori erano loro sicuramente noti (praesumptio de praesumpto). Mentre essi avrebbero dovuto motivare fornendo elementi idonei a provare la effettiva conoscenza da parte dei singoli dirigenti dei metodi usati dai loro sottoposti che si erano resi responsabili di reati, ovvero indicando fatti certi (e non un fatto presunto) dai quali si potesse pervenire con rigore logico ad un giudizio di certezza relativo alla detta conoscenza.

2.3. Questione applicazione amnistia

2.3.a) alle truffe

La terza considerazione di carattere generale riguarda il problema dell'applicazione dell'amnistia: numerosi ricorrenti (motivo n. 25, 28 e 29, avvocato "L."; motivi nn. 7 ed 8 avvocato "D."; motivo n. 11, avvocato "V."; motivo n. 7, avvocato "S."), invero, hanno censurato il fatto che i giudici della Corte di appello abbiano applicato il provvedimento di clemenza a vari reati di truffa, motivando con la mancanza di "evidenza" della prova della completa innocenza degli imputati, anche se questi erano stati assolti nel corso del giudizio di primo grado.

La censura è infondata. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, «qualora l'imputato sia stato assolto con formula piena e la sentenza sia stata impugnata dal pubblico ministero, il giudice dell'impugnazione può applicare il decreto di amnistia, medio tempore sopravvenuta, e già in vigore al momento della pronuncia impugnata, solo se reputi fondata l'impugnazione, sì da escludere che possa restare ferma la pronuncia di merito più favorevole all'imputato, dando congrua motivazione del suo convincimento difforme da quello del precedente giudice» (Cass.pen., sez. VI, 8 febbraio 1982, Bombardini; Cass. pen., sez. IV, 4 ottobre 1984, Faccenda; Cass. pen., sez. VI, 30 aprile 1988, Arno; Cass. pen., sez. Il, 28 luglio 1992, Liotta).

Ebbene, nella specie i giudici della Corte di appello si sono fondamentalmente attenuti a tale principio. Essi hanno, infatti, accolto l'impugnazione del pubblico ministero, sovvertendo completamente il ragionamento svolto dai giudici di primo grado, ed irrogando severe condanne per i reati più gravi; e nel far ciò hanno dato adeguata motivazione anche delle ragioni che li hanno indotti ad applicare l'amnistia ad ipotesi di reato come le truffe, per le quali, in difetto di un provvedimento di clemenza, avrebbero affermato la penale responsabilità dei prevenuti.

Né può sostenersi - come hanno tentato i ricorrenti - che i giudici di secondo grado avrebbero ritenuta provata l'esistenza dell'elemento soggettivo dei reati di truffa, sul presupposto che «i riti di Scientology non fossero che un artificio e un raggiro per indurre taluno in errore, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto», violando in tal modo i principi costituzionali posti a tutela della libertà religiosa. A tale censura si è risposto, infatti, nella prima considerazione di ordine generale, allorquando si è esaminato il problema della religiosità di Scientology, e si è affermato che, per l'ordinamento giuridico italiano, qualunque "rito" incontra limiti ben precisi, tra i quali va annoverato quello di compiere fatti che siano previsti dalla legge come reato, e la cui commissione costituisca una violazione del buon costume, ovvero dei principi costituzionali dei quali si è fatto cenno. Alla stregua delle superiori considerazioni, appare evidente che i motivi di ricorso su indicati, concernenti l'applicazione dell'amnistia per i delitti di truffa in ordine ai quali v'era stata assoluzione in primo grado, debbono essere rigettati.

2.3.b) al reato di esercizio abusivo della professione medica

Poiché i giudici di secondo grado hanno ritenuto di concedere l'amnistia anche per il reato di esercizio abusivo della professione medica (capo di imputazione 43), vanno a questo punto, per ragioni di sistematicità, presi in esame quei motivi di impugnazione con cui i ricorrenti lamentano l'erronea applicazione del provvedimento di clemenza a tale fattispecie. Ora, non sembra sostenibile che l'opera svolta dagli operatori di Scientology non integri (quanto meno con riferimento alle ipotesi in cui sono state sottoposte al trattamento persone malate) - come affermano taluni (motivo n. 14, avvocato "L."; motivo n. 8, avvocato "D."; motivo n. 15, avvocato "V."; motivo n. 8, avvocato "S."; motivo n. 5, avvocato "P."; motivo n. ricorso "L." e motivo n. 2 ricorso "C.", avvocato "L.") - gli estremi del reato di cui all'articolo 348 C.P., in quanto all'epoca dei fatti contestati non vigeva alcuna normativa in ordine alle sedute psicoanalitiche, alle quali si possono assimilare le sedute così dette di auditing e perché il trattamento così detto di "purification" consiste in sottoposizione a saune e in somministrazione di vitamine, attività queste assolutamente libere e che non richiedono alcun controllo medico. Ed infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte (addirittura anteriore alla così detta legge "Ossicini", che ha regolamentato la materia), in relazione alla professione medica (che si estrinseca nell'individuare e diagnosticare le malattie, nel prescriverne la cura, nel somministrare i rimedi, anche se diversi da quelli ordinariamente praticati), "«commette il reato di esercizio abusivo della professione medesima chiunque esprima giudizi diagnostici e consigli, ed appresti le cure al malato. Da tale condotta non è esclusa la psicoterapia, giacchè la professione in parola è caratterizzata dal fine di guarire e non già dai mezzi scientifici adoperati: onde, qualunque intervento curativo, anche se si concreti nell'impiego di mezzi non tradizionali o non convenzionali da parte di chi non sia abilitato all'esercizio, integra il reato previsto dall'articolo 348 C.P.» (Cass. pen., sez. II, 11 agosto 1973, RV 124844).

In aderenza al principio giurisprudenziale sopra esposto, e fornendo ulteriori argomentazioni (cfr. sentenza Corte di appello, alle pagg. 175-179), pienamente condivise da questa Corte, i giudici di secondo grado hanno dimostrato che l'attività svolta dagli operatori di Scientology, con riferimento alle dette sedute di "auditing" e di "purification", - laddove sono state sottoposte al trattamento persone malate - rientra perfettamente negli schemi del delitto di esercizio abusivo della professione sanitaria; dal che consegue l'obbligo dello Stato di reprimere detta attività, a meno che non venga esercitata da professionisti abilitati. Né è di alcuna importanza che gli adepti di Scientology possano attribuire alle sedute di "auditing" e di "purification" una valenza esclusivamente religiosa. Esse sono, infatti, obiettivamente pratiche con cui, in taluni casi, vengono somministrate cure a soggetti affetti da turbe psichiche, e dunque rientrano in ogni caso tra quelle per cui è necessario l'intervento di personale sanitario qualificato.

Nel nostro Paese, infatti, non è possibile che alcuno metta in pericolo la salute dei cittadini, propinando loro cure per i mali del corpo o della mente, senza avere conseguito il titolo professionale che lo abilita a tenere siffatto comportamento: e ciò anche se questi in buona fede dovesse ritenere di agire nel superiore interesse della loro "anima", giacché, come si è detto prima, la tutela della salute costituisce un indubbio limite all'esplicazione della libertà religiosa.

Sono, conseguentemente infondate tutte le doglianze mosse dai ricorrenti relativamente all'affermazione della responsabilità penale dei prevenuti, ed alla conseguente applicazione dell'amnistia da parte dei giudici dell'appello, in ordine al il delitto di cui all'articolo 348 C.P..

2.4. Il delitto di associazione per delinquere

Vanno a questo punto presi in esame i motivi di ricorso concernenti gli altri reati, iniziando da quello di associazione per delinquere, che coinvolge il maggior numero di imputati, e che, per la sua rilevanza è stato oggetto delle censure di tutti i ricorrenti.

In ordine a tale reato, il Tribunale di Milano - come si è cennato - aveva assolto, affermando che «nel caso in esame non vi è alcun elemento che possa far ritenere la esistenza di un accordo tra gli imputati per commettere più delitti»; i reati commessi dai prevenuti sarebbero atti di «deviazione dalla condotta prevista dalle direttive dell'Hubbard, ad opera di singoli operatori della chiesa di Scientology o dei centri Narconon, che, agendo in tal modo, si ponevano in contrasto non soltanto con la legge penale, ma addirittura con le stesse direttive» del fondatore della chiesa. Lo stesso Tribunale aveva chiarito che «non può essere ravvisata una responsabilità dei presidenti o vice presidenti a titolo di dolo eventuale per avere accettato il rischio che i singoli operatori, nell'attuare le direttive di Hubbard, potessero spingersi sino a violare la legge penale. Infatti, è evidente che i presidenti ed i vice presidenti, ed in genere i responsabili di una associazione non possono essere ritenuti responsabili della degenerazione di una condotta delle persone che operano per l'associazione stessa, degenerazione che come tale è frutto dell'iniziativa individuale. A maggior ragione non può essere ravvisata tale forma di responsabilità nel delitto di associazione per delinquere, nel quale è necessario un preciso accordo avente per oggetto la commissione di una serie di delitti; accordo che è cosa ben diversa dall'accettazione del rischio che altri, nell'esecuzione di una attività normalmente lecita, possano commettere reati» (pagg. 387-388 sentenza Tribunale).

I giudici della Corte di appello hanno dedicato al problema numerose pagine della loro decisione, concludendo per la sussistenza del reato associativo; ecco, in estrema sintesi, le loro argomentazioni:

- per Scientology:

  • sussisterebbe «un filo conduttore che collega tra loro le condotte dei vari appartenenti a Scientology, dal momento che l'azione di costoro nei confronti del possibile utente si sarebbe pressoché sempre svolta secondo delle linee generali costanti, adattandosi poi - su schemi fissi - al tipo di problemi che gruppi di casi man mano presentavano"»;

  • non sarebbe «possibile sostenere che le azioni criminose, che sono estrinsecazione delle condotte di cui sopra, che per di più risultano commesse in luoghi diversi, in tempi diversi, e da parte di operatori diversi, possano essere il frutto di comportamenti devianti ad opera di singoli appartenenti all'organizzazione, al di fuori di qualsiasi direttiva da parte di quest'ultima; e ciò perché: a) determinate scelte non potevano che provenire dai vertici di Scientology (esempio accettazione persone con precedenti psichiatrici); b) la trafila per il rimborso (attorno alla quale si sono sviluppati più fatti reato) era un problema generale che coinvolgeva tutti gli uffici principali; c) vi sarebbe la prova che i vertici di Scientology non potevano ignorare i metodi adottati da alcuni operatori, i quali commettevano reati e che non venivano bloccati dai superiori» (vedi pagg. 106-115).

- Per i centri Narconon:

  • operatori diversi, in centri diversi, avrebbero raggirato varie persone, prospettando loro una sicura guarigione in tempi brevi, ed utilizzando questo inganno per reclutare ospiti paganti, non indietreggiando nemmeno di fronte ad una sorta di ricatto morale;

  • l'accoglienza di un nuovo ospite nei centri prescindeva completamente dal benessere del drogato e dalla volontà di recuperarlo, viste l'organizzazione e la scarsa professionalità degli operatori;

  • l'attività degli operatori era sostanzialmente incentrata sul problema delle buone statistiche, nel senso di conseguimento di maggiori introiti per l'organizzazione. (vedi pagg. 131-133).

Come si è cennato, tutti i ricorrenti hanno presentato motivi di ricorso avverso la condanna per il reato associativo, e le relative doglianze, assai spesso, sono comuni ai vari difensori (motivo n. 15 avv. "L."; motivo n. 5, avv. "D."; motivo n. 8, avv. "V."; motivo n. 2, avv. "P."; motivo n. 1, avv. "B."; motivo n. 2, avv. "P."; motivo n. 9, avv. "S."; motivo n.3 ricorso "B.", motivo n. 3 ricorso "L." e motivo n 1 ricorso "C.", avv. "L."). Tali doglianze sono state già esposte nella prima parte della presente decisione; in questa sede, tuttavia, per ragioni di sistematicità, appare opportuno riassumere le principali.

In molti hanno sostenuto:

  • che «i giudici di appello sarebbero giunti all'affermazione di responsabilità penale per il reato associativo, omettendo di motivare adeguatamente sul fatto che la chiesa di Scientology costituirebbe un fenomeno religioso», e che «la dianetica e la scientologia si esplicherebbero in attività che non contrastano assolutamente con il precetto dell'articolo 19 della Costituzione». E tale circostanza sarebbe particolarmente rilevante, «non soltanto perché permette di considerare l'associazione estranea al sindacato del giudice penale, ma anche perché incide sulla ricostruzione del fatto e su quella dell'elemento soggettivo». L'eccesso che ha caratterizzato la propaganda dei corsi e la loro vendita non sarebbe, in realtà, dovuto alla smania di accumulare soldi, ma «esclusivamente alla fede, che si identifica nella ferma adesione dell'animo ad una verità e nella credenza assoluta del dogma rivelato».

  • che i giudici della Corte di appello avrebbero errato nel modificare l'originaria impostazione del reato di associazione per delinquere - che era stato attribuito ai presidenti ed ai vice presidenti dell'associazione e ad alcuni operatori ai quali erano stati contestati specifici reati - ritenendo che del fatto dovessero rispondere non i vertici dell'ente, ma coloro che ricoprivano altre funzioni nell'organigramma interno o nei consigli, direttivo o esecutivo; in tal modo, essi avrebbero, infatti, violato il disposto dell'articolo 477 c.p.p. del 1930, pervenendo ad una condanna sulla prospettazione del fatto diversa da quella indicata nell'originaria imputazione;

  • che detti giudici avrebbero fornito una motivazione illogica, individuando lo scopo dell'accordo criminoso nel fine «dell'acquisizione di sempre maggior denaro», e non in quello di commettere una serie indeterminata di delitti; e non prendendo in considerazione, come aveva fatto il Tribunale, la circostanza che i reati sarebbero stati il «frutto esclusivo di iniziative intraprese da alcuni operatori per troppo zelo e per cattiva interpretazione delle direttive dell'Hubbard».

I ricorrenti hanno, ancora, lamentato la carenza di motivazione dell'impugnata sentenza in ordine alla sussistenza dell'elemento soggettivo, non avendo questa fornito le ragioni del convincimento dei giudici relativamente «alla consapevolezza in ciascun associato, di partecipare ad un programma criminoso, indipendentemente dalla commissione dei reati fine», ed all'affectio societatis. Per alcuni, poi, la motivazione sarebbe addirittura «inesistente in ordine all'assunto che i vertici dell'organizzazione avrebbero svolto un'opera di programmazione e di proposizione delle condotte incriminate»; e sarebbe carente nella parte in cui avrebbe cercato di dimostrare che le singole violazioni dei vari operatori rappresentavano una prassi generalizzata; in tale ultima ipotesi, infatti, avrebbe fatto riferimento a deposizioni rese davanti alla polizia giudiziaria, nella fase istruttoria, delle quali non poteva essere data lettura ai sensi dell'articolo 462 c.p.p. del 1930. Per altri, i giudici della Corte avrebbero motivato illogicamente la condanna in base alla semplice posizione degli imputati all'interno dell'associazione, non compiendo i dovuti accertamenti sulla effettiva esistenza dell'incarico ricoperto dai prevenuti, sulla durata dell'incarico stesso e sulla effettiva funzionalità dei consigli esecutivo e consultivo.

Per alcuni ricorrenti, sarebbe apodittica l'affermazione dei giudici di secondo grado, secondo cui «lo scopo dell'associazione era quello di acquisire denaro, erroneamente sostenuta - alla pagina 78 del provvedimento impugnato - con una lettura distorta delle direttive» dell'Hubbard; detti giudici, peraltro, avrebbero «enfatizzato solo le entrate, pur sapendo dalla documentazione che tutto veniva speso e che non vi sarebbe prova di distrazione di denaro» e di arricchimento degli imputati.

I giudici della Corte di appello avrebbero, ancora, omesso di motivare sul problema del dolo e la loro affermazione secondo cui «i vertici non potevano non sapere» costituirebbe un criterio di individuazione della corresponsabilità penale confliggente con il dettato dell'articolo 27 della Costituzione, in quanto, essendo fondato su una presunzione di colpevolezza correlata alla posizione rivestita, non ammetterebbe prova contraria.

La Corte avrebbe, infine, omesso di motivare in ordine alle numerose testimonianze che avrebbero riferito di esperienze positive presso la chiesa di Scientology; mentre costituirebbe «una generalizzazione eccessiva far derivare da pochi casi esaminati il fondamento di una induzione secondo la quale simili azioni criminose erano state previste e programmate in via generale fin dall'inizio, e, dall'altro lato, che un tale programma criminoso rispondeva a direttive provenienti proprio dai vertici dell'organizzazione italiana», quando al contrario si è in presenza di un quadro probatorio, costituito da testimonianze contrastanti, e perciò contraddittorio.

Le suddette censure sono in parte fondate. Ritiene, infatti, la Corte che i giudici del secondo grado - nella loro pur pregevole sentenza frutto di un lodevole sforzo volto alla ricerca della verità - abbiamo reso una motivazione illogica proprio su tale delicato punto. Si è, peraltro, già messo in rilievo un primo vizio della motivazione della sentenza impugnata in ordine all'affermazione di responsabilità degli imputati per il delitto di associazione per delinquere, quando si è evidenziato che i giudici della Corte di appello di Milano, dopo avere affermato di non volere affrontare in maniera diretta il tema della religiosità della chiesa di Scientology, facendo in tal modo professione di agnosticismo, hanno poi asserito che tale organizzazione si era «manifestata nella sua essenza, sin dall'inizio come un'attività commerciale, volta alla vendita, con tutti i metodi previsti dai manuali in materia, di un determinato prodotto». Si è, inoltre, chiarito che tale ultima affermazione dei giudici di merito farebbe pensare che, per gli stessi, Scientology non è una chiesa o una confessione religiosa; ma che la stessa affermazione è priva di motivazione che faccia riferimento agli "indici" di cui alla sentenza della Corte costituzionale citata, e che questa mancanza, per le ragioni esposte trattando del problema della religiosità di Scientology, è censurabile.

Ma la suddetta affermazione è anche illogica sotto altri profili: sia perché un'attività commerciale svolta da una organizzazione religiosa non è idonea a farle perdere la connotazione di "confessione", di cui all'articolo 8 della Costituzione; ma soprattutto perché non ha tenuto conto delle numerose testimonianze assunte nel corso dell'istruzione nonché della copiosa documentazione prodotta dai difensori degli imputati, volte a dimostrare il carattere religioso di Scientology. Ed è il caso di ribadire che tale accertamento, nella specie, appare essenziale, giacchè una "chiesa", con regole statutarie ben precise, non può trasformarsi in associazione per delinquere, salvo che tutti i suoi aderenti non decidano di cambiare le regole in precedenza adottate, dando così vita ad un nuovo soggetto, diverso dall'originario.

Dunque, i giudici del merito avrebbero dovuto accertare se l'organizzazione di Scientology fosse o meno una confessione religiosa, e nell'ipotesi affermativa se - avuto riguardo ai reati commessi da alcuni dei suoi appartenenti nei confronti delle persone che entravano a far parte dell'associazione - essa si sia trasformata in una associazione per delinquere; ovvero se - come aveva sostenuto il Procuratore generale presso la Corte di appello di Milano - nell'ambito di un'attività lecita dell'organizzazione, possa essere sorta, in modo distinto ed autonomo, una associazione illecita. Ma la sentenza dei giudici di secondo grado è illogica anche nella parte in cui ritiene provato il delitto di associazione per delinquere basandosi sulla circostanza della molteplice «reiterazione di condotte analoghe, riconducibili, pertanto, come tali necessariamente all'organizzazione»; e nella parte in cui tenta di superare l'obiezione di molti difensori, secondo cui costituirebbe una generalizzazione eccessiva il far derivare dai pochi casi esaminati il fondamento di una induzione secondo la quale «simili azioni criminose erano state previste e programmate in via generale fin dall'inizio, e, dall'altro lato, che un tale programma rispondeva a direttive provenienti proprio dai vertici dell'organizzazione italiana» (pag. 110 sentenza Corte di appello).

Ad avviso di questa Corte, infatti, il limitato numero di casi per cui si è proceduto ed è stata affermata la responsabilità penale di alcuni imputati, non è sufficientemente indicativo della sussistenza di un'associazione criminale, specie se messo a raffronto con l'elevato numero di persone, con le quali Scientology aveva instaurato rapporti. È la stessa sentenza di secondo grado ad avere messo in rilievo che le persone iscritte a quella organizzazione erano, nella sede di Milano, circa 27.000, e che solo pochissimi soggetti avevano sporto denuncia, o avevano lamentato qualcosa nei confronti degli operatori con cui erano entrati in contatto: e tale circostanza, se correttamente utilizzata, non può portare alla criminalizzazione di un'intera associazione, potendo rappresentare, al più, un elemento idoneo ad avviare opportune indagini in ordine alla sussistenza del delitto associativo.

Sennonché, i giudici della Corte di appello hanno superato tale obiezione affermando che: se solo un numero limitato di persone aveva presentato denuncia, ciò era avvenuto perché la stragrande maggioranza «aveva preferito chiudere il rapporto con l'istituto di Dianetica, senza ulteriori strascichi, vuoi per paura, vuoi per stanchezza, vuoi per buttarsi tutta la vicenda dietro le spalle»; - la Guardia di Finanza aveva preso in esame solo 6.000 fascicoli, tra i 27.000 rinvenuti, fatto questo che avrebbe «ristretto in modo estremamente rilevante il numero dei soggetti nei cui confronti sia possibile effettuare statistiche»;

- tra le persone assunte a verbale, «la parte preponderante, ben lungi dal dichiararsi soddisfatta dei contatti avuti con l'istituto di Dianetica, aveva avanzato un vero e proprio diluvio di lamentele»;

- la pubblica accusa, nell'esercitare l'azione penale, aveva «operato una scelta cosiddetta "minimalista", configurando ipotesi delittuose soltanto in quei casi in cui vi era un eclatante violazione della legge penale» (pagg. 112-114 sentenza Corte di appello).

Tale ragionamento non può essere condiviso da questa Corte giacchè non rileva, ai fini per cui è processo, se le persone che frequentarono Scientology siano rimaste soddisfatte o meno dell'organizzazione; purché non abbiano denunciato fatti reato, per i quali il pubblico ministero aveva, in ogni caso, l'obbligo di iniziare azione penale senza possibilità alcuna di scelte "minimaliste"; e perché non è consentito desumere dal mancato esame di atti a disposizione degli inquirenti, elementi per affermare che, in base ad una probabilità statistica, alcune persone, già inquisite, avrebbero commesso ulteriori reati, loro non contestati.

Infine, la sentenza dei giudici della Corte di appello di Milano è censurabile in tutti quei casi in cui, al fine di provare la responsabilità dei dirigenti di Scientology nel reato di associazione per delinquere, ha utilizzato la praesumptio de praesumpto, violando - come si è fatto cenno - l'articolo 192 del codice di procedura penale. I vizi rilevati impongono, dunque, l'annullamento del provvedimento impugnato, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Milano per nuovo esame sul punto.

2.5. Le estorsioni

Terminato l'esame dei motivi di ricorso concernenti il delitto di associazione per delinquere, ritiene la Corte di prendere in esame quelli concernenti la fattispecie criminosa prevista dall'articolo 629 C.P. (motivi nn. 17, 21, 22, 24 e 27, avvocato "L."; motivo nn. 6 e 17, avvocato "D."; motivi nn. 9 e 10 avvocato "V."; motivi nn. 10 e 11, avvocato "S."; motivo n. 1, avvocato "B."; motivo nn. 1 e 2 ricorso "B." e motivi nn. 1 e 2 ricorso "L.", avvocato "L."); e si osserva che le censure riguardanti le condanne inflitte agli imputati per i reati di estorsione loro attribuiti sono parzialmente fondate.

I giudici di secondo grado hanno ritenuto la sussistenza di tale reato tutte le volte in cui è risultata provata una sorta di abituabilità nei seguenti atteggiamenti:

  • «la reiterazione di comportamento insistenti e molesti;

  • il non farli cessare se non con l'adesione alle richieste di versamenti di altre somme di denaro;

  • il circondare la parte lesa con una costante presenza di persone da cui non possa liberarsi se non con l'iscrizione a nuovi e sempre più costosi corsi;

  • in altre parole l'accumulo di condotte, che - pur non integrando reati (al più quello di molestie), se prese isolatamente - nel loro insieme costituivano, però, una vera e propria persecuzione ai danni del soggetto passivo, che rimaneva del tutto sopraffatto e privato della libertà della scelta».

Tali comportamenti, infatti, sono stati ritenuti dalla Corte di merito «idonei a coartare la volontà del soggetto, o quanto meno a far sorgere in lui il timore di non potere agire altrimenti». Ma i giudici del secondo grado hanno anche evidenziato che:

  • «questi comportamenti sono stati tenuti, il più delle volte, nei confronti di persone particolarmente fragili e facilmente suggestionabili, sottoposte ad una sorta di condizionamento (spesso definito dai testimoni come "lavaggio del cervello"), per cui il benessere si poteva conseguire soltanto all'interno dell'organizzazione»;

  • «in caso di dissenso, di critica, di esitazione ad adeguarsi, era immediata la reazione di allontanamento dell'adepto dalla cerchia degli amici e dei parenti, per riportarlo all'interno dell'istituto, in modo da isolarlo completamente dal mondo esterno»;

  • se il consenso dell'adepto «non risultava poi pieno ed incondizionato, il che voleva dire non aderire prontamente a tutte le richieste ed imposizioni che gli venivano man mano poste; era minacciata la sua espulsione ed il suo abbandono, dopo che vi era stata la promessa certa di un sicuro benessere»;

  • «in numerosi casi gli operatori avevano preconizzato malattie gravi ed incurabili o comunque conseguenze drammatiche a chi contrastava l'organizzazione e i suoi metodi»;

  • «queste frasi non erano un' iniziativa isolata, frutto di autonome scelte, bensì erano la conseguenza di una sorta si indottrinamento generale» (pagg. 185 - 187 sentenza Corte di appello).

Ciò premesso, osserva la Corte che un comportamento quale quello descritto dai giudici della Corte di appello rientra certamente nello schema di altri reati previsti dal codice penale, quali la circonvenzione di incapace ove ricorrano gli estremi dell'abuso da parte dell'agente delle particolari condizioni di incapacità del soggetto passivo - ovvero la truffa; ma non rientra nello schema tipico del delitto di estorsione. Tale reato postula, infatti, una minaccia (la violenza è, tranne che per i casi "B." "B." e "Z.", fuori causa), e la minaccia richiede l'annuncio, in forma alternativa, di un male futuro, la cui verificazione dipende, però, dall'agente. Dunque, se l'avverarsi del male prospettato è indipendente dall'operato del soggetto non vi è minaccia, e quindi non sussiste l'estorsione, ma l'ipotesi delittuosa prevista dall'articolo 640, comma 2, n. 2 C.P., che punisce la truffa commessa ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario.

In tal senso è la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui «ai fini dell'integrazione del reato di estorsione è indifferente che l'agente abbia effettivamente la possibilità di attuare il male minacciato, ma è invece necessario che la minaccia si presenti, nella sua rappresentazione, come certa e promanante dal soggetto attivo o da altre persone allo stesso collegate, in modo da raggiungere l'effetto di coartare ogni libertà di scelta della vittima. Invece, nel reato di truffa aggravata ai sensi dell'articolo 640, secondo comma, n. 2, C.P., la determinazione della vittima è cagionata da un errore conseguito con il prospettare il pericolo di un male eventuale dovuto all'opera di terzi» (Cass. pen., sez. II, 17 ottobre 1983, Florio).

Né sembra che la sentenza di questa Corte del 28 settembre 1990, Sidoni, citata dai giudici di secondo grado per giustificare la pronuncia di condanna, si attagli alla fattispecie: essa riguarda, infatti, il caso di un soggetto che, spacciandosi per ufficiale di polizia giudiziaria mediante l'esibizione di un falso tesserino di appartenenza alla guardia di finanza, aveva minacciato un esercente di gravi sanzioni amministrative e pecuniarie per la mancata emissione di scontrino fiscale, qualora non gli versasse del denaro; ed aveva affermato il principio che «l'uso di artifici o raggiri per rafforzare la minaccia non respinge l'estorsione nell'area del minor reato di truffa - aggravata dalla prospettazione di un pericolo immaginario - quando sia diretto a conferire efficacia alla minaccia stessa». In ogni caso, infatti, nell'ipotesi sopra descritta, il male prospettato non è indipendente dall'operato del soggetto, come invece si è verificato nella fattispecie per cui è processo.

Ma anche la sentenza di questa Corte del 10 marzo 1989, Verdiglione - del pari citata nel provvedimento impugnato a sostegno delle ragioni della condanna riguarda una fattispecie che, pur sembrando analoga a quella di che trattasi, ne differisce profondamente. In quel caso, infatti, venne ritenuta legittima la configurabilità del reato di estorsione con abuso della posizione dominante dell'analista e sfruttamento di quella psicologicamente subordinata dell'analizzato, avendo il primo minacciato di recedere dal contratto, interrompendo il rapporto di analisi, al fine di ottenere l'erogazione non dovuta e non voluta di capitali, imponendo all'analizzato 1'acquisto di quote sociali. Il verificarsi del danno minacciato (interruzione delle cure mediche) dipendeva, dunque, in quell'ipotesi, dall'agente; mentre nel caso per cui è processo il danno minacciato non è la sospensione delle sedute di 'auditing' e di 'purification', che la vittima vuole del resto interrompere, ma la prospettazione dei danni la cui verificazione non dipende comunque dall'agente che da questo fatto potrebbero derivare. D'altro canto, questa Corte ritiene che una serie di comportamenti insistenti e molesti - sia pure reiterati sino al limite da produrre nella persona che li subisce un senso di fastidio profondo, per liberarsi del quale può essere indotta ad accondiscendere alle richieste di coloro che tali comportamenti pongono in essere - non è sufficiente a realizzare gli estremi del delitto di estorsione, che - come si è detto - può essere commesso solo mediante la violenza fisica o la minaccia.

È pur vero che il modo e la forma della minaccia sono indifferenti ai fini della sussistenza del reato punito dall'articolo 629 C.P.; e che, conseguentemente, è indifferente che la minaccia sia diretta o indiretta, palese o larvata, reale, figurata o scritta, determinata o indeterminata ovvero che venga fatta personalmente dal colpevole, o da un intermediario, imputabile o non imputabile, ovvero a mezzo di comunicazione postale, telegrafica o telefonica e così via di seguito. Ma si deve pur sempre trattare di minaccia, ossia di prospettazione di un male futuro, la cui verificazione dipende dall'agente; e tale non può essere considerata la reiterazione di comportamenti molesti, obiettivamente fastidiosi in sé, ma con i quali non viene minacciato alcun danno a chi li subisce. Peraltro, ad accedere ad una tesi diversa, le così dette "vendite dure", che i giudici della Corte di appello di Milano hanno ritenuto legittime, finirebbero con il rientrare nell'ambito delle estorsioni, dal momento che, in quel tipo di contrattazione, il compratore finisce, il più delle volte, con l'aderire alle richieste del venditore al solo fine di liberarsi della sua presenza.

Né, ad avviso di questa Corte, possono essere considerati estorsivi quei comportamenti concretantisi in meri "ricatti morali", come - ad esempio - quello tenuto dal "C.", il quale per vincere le resistenze della madre della "C." e convincerla a sborsare le somme di denaro necessarie a pagare i corsi di Scientology, le rivolse la frase «ma che cosa contano i soldi, se sua figlia può anche morire» (pag. 290 sentenza Corte di appello). In tali casi, infatti, i prevenuti si sono limitati a prospettare ad altre persone un danno la cui verificazione non dipendeva in alcun modo dalla loro attività. Ed una condotta siffatta, ad avviso di questa Corte, è idonea ad integrare gli estremi del delitto di circonvenzione di incapaci, ove sussista anche l'abuso dei bisogni, delle passioni o della inesperienza di una persona minore, oppure dello stato d'infermità o deficienza psichica di una persona; ovvero gli estremi della truffa aggravata ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario, ove il danno prospettato sia inesistente; ma non quelli dell'estorsione, postulando tale reato - come si è già detto - che il male minacciato sia (o che quanto meno appaia) riferibile ad un'attività posta in essere dall'agente.

Affrontato il problema della esistenza o meno, nelle linee generali, del reato di estorsione, la Corte osserva che sicuramente tale delitto non sussiste nelle ipotesi di cui ai capi 1, 2, 4, 11, e 35, per le quali - in difetto di una minaccia nel senso sopra espresso - meglio si adatta lo schema criminoso della truffa aggravata, consumata o tentata. D'altro canto, non vi sono dubbi che l'attività svolta dai vari imputati, nelle fattispecie di cui sopra, integri gli estremi del delitto previsto dall'articolo 640 C.P.; è sufficiente, infatti, rilevare che in tutti questi casi sono stati contestati ai prevenuti i seguenti comportamenti:

  • la prospettazione, più o meno velata, di danni fisici e psichici alle persone offese nel caso di mancata adesione alla chiesa di Scientology e di mancato acquisto del prodotto offerto;

  • la falsa prospettazione ai pazienti dei sicuro raggiungimento del benessere fisico e psichico (il così detto stato di "clear"), comportante l'ulteriore possibilità di avere benefici anche di ordine economico;

  • l'aver vantato la validità scientifica dei metodi proposti, e l'aver fatto apparire, in alcune fasi, il progredire del trattamento come controllato scientificamente attraverso uno strumento denominato "E Meter", venduto a prezzi di gran lunga superiori al suo valore;

e tali comportamenti realizzano, ad avviso di questa Corte, gli estremi degli artifizi e dei raggiri, idonei ad indurre le vittime, spesso psichicamente fragili, in errore. Né è sostenibile che tali fatti non integrano gli estremi della truffa, solo perché qualunque religione ha il diritto, costituzionalmente garantito, di promettere ai suoi adepti - i quali rispettano determinati riti - risultati mirabolanti; come si è infatti precisato trattando il problema della religiosità di Scientology, qualunque confessione religiosa può, nel nostro Paese, promettere alla gente anche cose irrealizzabili o delle quali non v'è prova che possano realizzarsi senza commettere alcun reato; ma se tale promessa costituisce il mezzo o rectius, l'artifizio o il raggiro - per ottenere un vantaggio patrimoniale in favore di chi l'ha fatta, o della sua chiesa - quale che essa sia sussistono gli estremi del reato di truffa. Sennonché, i suddetti delitti di truffa consumata o tentata rientrano nell'ultimo provvedimento di amnistia, e - non esistendo prove le quali rendono evidente che i fatti non sussistono o che gli imputati non li hanno commessi - sono, pertanto, estinti per tale titolo; conseguentemente, va pronunciata sentenza di annullamento senza rinvio:

  • nei confronti del "B.", del "B." e della LA "V.", in ordine al reato di truffa, così qualificato il reato di cui al capo 1);

  • nei confronti della "B.", del "C.", del "T. D." e della "M.", in ordine al reato di truffa, così qualificato il reato di cui al capo 2);

  • nei confronti del "D.", della "G." e del "P.", in ordine al reato di tentata truffa, così qualificato il reato di cui al capo 4);

  • nei confronti del "T.", del "L.", del "N." e del "R.", in ordine al reato di truffa, così qualificato il reato di cui al capo 11);

  • nei confronti della "B.", del "R." e del "T.", in ordine al reato di tentata truffa, così qualificato il reato di cui al capo 35), perché estinto per amnistia.

Per quanto concerne, invece, il reato di estorsione di cui al capo d'imputazione n. 15, osserva la Corte che la sentenza impugnata va annullata con rinvio nei confronti del "T." e senza rinvio nei confronti del "B." e del "B.", per non avere questi ultimi due commesso tale fatto. Tra le numerose ipotesi di estorsione contestate agli imputati, quella ai danni della "Z.", così come ritenuta dalla Corte di appello di Milano, presenta un elemento particolare: sembrerebbe che la parte offesa sia stata chiusa a chiave in una stanza della sede di Scientology, e che sia stata trattenuta in quel luogo sino a sera avanzata, e ciò al fine di costringerla a rinunciare ad un rimborso che le spettava (pagina 201 sentenza Corte di appello); e tale fatto potrebbe addirittura integrare gli estremi del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, previsto dall'articolo 630 C.P. Sennonché la sentenza dei giudici di secondo grado non motiva sufficientemente in ordine a tale circostanza - che è l'unica che potrebbe giustificare una condanna per fatto estorsivo - dato che ha ritenuto la sussistenza degli estremi del delitto di cui all'articolo 629 C.P. nel complesso di altri comportamenti persecutori, che ad avviso di questa Corte non integrano gli estremi dell"estorsione. Dunque, su tale punto, almeno per quanto concerne la posizione dell'autore materiale del fatto, sembra opportuno che altra sezione della Corte di appello di Milano riesamini i fatti, al fine di accertare se la "Z." fu effettivamente privata, ad opera dell'imputato, della sua libertà personale a fini estorsivi.

Per quanto concerne, invece, la posizione del "B." e del "B." in ordine al suddetto reato, si osserva che i giudici della Corte di appello non hanno individuato alcun elemento di prova a loro carico, atto a dimostrare - non tanto la conoscenza della vicenda "Z." - ma quella dello specifico episodio attribuito al "T.". Tutte le argomentazioni contenute nella sentenza di secondo grado sono, infatti, idonee a fornire solo la dimostrazione che i due imputati potevano conoscere, nelle linee generali, il caso in questione, ma non che essi abbiano in qualche modo concorso all'eventuale sequestro di persona a fini estorsivi. Ed in difetto di tale prova, l'annullamento non può essere pronunciato senza rinvio, per non avere commesso il fatto.

2.6. Il ricorso del pubblico ministero

Alla stregua dei ragionamenti su esposti, appare evidente che il ricorso proposto dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Milano deve essere rigettato.

In ordine al primo motivo di ricorso osserva, infatti, la Corte che i giudici del secondo grado hanno esattamente qualificato i fatti attribuita alla "B.", al "C.", al "P.", al "P.", al "T. D." ed alla "M." al capo di imputazione 2), come circonvenzione di incapace in danno della "C.", confermando la qualificazione giuridica operata dal Tribunale; tale tesi, peraltro, è corretta non solo per le ragioni sopra esposte, ma anche perché, nella specie, non v'era neppure la prova sicura e certa dell'ingiustizia del profitto, elemento essenziale ai fini dell'esistenza del reato di estorsione. Come i giudici dell'appello hanno, infatti, ben puntualizzato, la "C." non poteva pretendere che l'organizzazione di Scientology fornisse le sue prestazioni senza avere prima anticipato il corrispettivo che veniva a tutti richiesto per quelle sedute, fatto questo che costituiva una regola inderogabile dell'associazione; e gli stessi giudici, a tale proposito, hanno esattamente richiamato la sentenza di questa Corte del 10 marzo 1989 contro "V.", evidenziando che in quel processo la minaccia, costituita dalla prospettazione della sospensione del trattamento di analisi, era indirizzata a conseguire un profitto illecito, e cioè la sottoscrizione di quote di una società, mentre nel presente processo, la minaccia rivolta alla "C." era diretta a farle pagare i corsi che intendeva ancora seguire.

Del resto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, «la minaccia non è penalmente apprezzabile quando è legittima e tende a realizzare un diritto riconosciuto e tutelato dall'ordinamento giuridico» (cass. pen., sez. II, 17 dicembre 1973, Riboli e altro); conseguentemente, in un contratto con prestazioni corrispettive, l'autotutela che si realizza con l'attuazione del principio inadimpleti non est adimpledum non può costituire condotta tipica del reato di estorsione.

Per quanto concerne, invece, il secondo motivo di ricorso presentato dal Procuratore generale presso la Corte di appello di Milano nei confronti della "B.", del "C.", della "C." e del "T." - a parte le già svolte considerazioni in ordine al tema dell'estorsione va evidenziato (anche con riferimento al reato di circonvenzione di incapace) che il rappresentante della pubblica accusa si è limitato a prospettare una diversa, e per lui più adeguata, valutazione delle risultanze processuali; e che, in conformità al disposto dell'articolo 524 c.p.p. del 1930 (ed oggi dell'articolo 601, comma 1, lettera e, c.p.p. vigente), esula dai poteri della Corte di Cassazione la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito. Infine, sempre con riferimento al ricorso presentato dal rappresentante della pubblica accusa nei confronti di tutti gli altri imputati, ed a costoro ritualmente notificato, osserva la Corte che tale impugnazione, ai sensi degli articoli 207 e 209 c.p.p. del 1930, deve essere dichiarata inammissibile, perché il pubblico ministero vi ha rinunciato.

2.7. reati tributari

Vanno, a questo punto, prese in esame le doglianze avverso quella parte della sentenza impugnata, che ha riconosciuto la responsabilità penale di alcuni imputati in ordine ai reati tributari; e va osservato che i motivi di ricorso presentati nell'interesse del "R.", del "C.", della "M.", dell' "A.", della "B.", del "T." e del "D." (motivo n. 16, avvocato "L."; motivo n. 9, avvocato "D." ; motivo n. 16, avvocato "V."; motivo n 4 ricorso "B.", avvocato "L.") avverso la condanna per la contravvenzione di cui all'articolo 1 del D.L. 10 luglio 1982, n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516, (capo di imputazione n. 40) sono parzialmente fondati; tale reato, infatti, avendo i suddetti prevenuti provveduto alle presentazione della prescritta dichiarazione integrativa ed agli adempimenti di versamento previsti dall'articolo 57, comma 6, della legge 413 del 1991, rientra nel novero di quelli ricompresi nel provvedimento di amnistia di cui al D.P.R. 20 gennaio 1992, n. 23.

Non è, invece, sostenibile che, nella specie, ricorrano gli estremi per l'applicazione dell'articolo 152, comma 2, del codice di procedura penale del 1930: non esistono, infatti, prove le quali rendono evidente che il fatto non sussiste o che gli imputati non l'hanno commesso o che il fatto non è preveduto dalla legge come reato. Ed invero, l'applicabilità o meno nel caso concreto dell'articolo 20, comma 2, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 598, nella parte in cui esonera da pagamento di imposta le cessioni di beni e le prestazioni di servizi «effettuate in conformità alle finalità istituzionali da associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose etc.», richiede, anzitutto, che all'organizzazione di Scientology sia riconosciuta la natura di associazione religiosa, fatto questo non evidente e che dovrà essere accertato dai giudici del rinvio. Né apparirebbe evidente, ancorché fosse stata provata la religiosità della Chiesa di Scientology, che le suddette cessioni e prestazioni siano state effettuate in conformità alle finalità istituzionali dell'associazione stessa, risultando anzi, dalla sentenza di secondo grado, che tali operazioni avevano vera e propria natura commerciale. Devesi, conseguentemente, annullare su tale punto l'impugnata sentenza, in quanto la contravvenzione suddetta è estinta per amnistia.

In ordine alla stessa contravvenzione ascritta al "C.", osserva la Corte che la sentenza di secondo grado deve, del pari, essere annullata sul punto, in quanto il reato de quo è estinto per intervenuta prescrizione. Ed infatti, l'articolo 9 del decreto legge 10 luglio 1982, n. 429, modificato dalla legge 7 agosto 1982, n. 516, prevede che «il reato previsto nel primo comma dell'articolo 1 si prescrive in sette anni», e dunque in dieci anni e mezzo, se vi sono interruzioni; e tale termine è ampiamente trascorso.

2.8. Le circonvenzioni di incapace

2.8.a) Le condanne da annullare

Dopo i motivi di ricorso concernenti i reati tributari vanno presi in esame quelli presentati nell'interesse degli imputati "S.", "M.", "F.", "V.", "L.", "B.", "D." e "P." avverso la condanna per i reati di circonvenzione di incapace di cui ai capi di imputazione numeri 6, 19, 20, 22, 25 e 27 loro rispettivamente ascritti.

In ordine al reato di circonvenzione di incapace in pregiudizio di MORMONE Salvatore (capo 6), si osserva che il Tribunale aveva assolto sia il "S." che il "M.", affermando che non poteva ravvisarsi responsabilità penale dei presidenti e dei vice presidenti della "chiesa" a titolo di concorso nei reati eventualmente commessi da altri facenti parte dell'organizzazione, qualora non vi fosse la prova che essi avessero materialmente partecipato a tali illeciti o che, in qualche modo avessero concorso moralmente alla loro commissione. E tale prova nella specie - così come in tutte le altre ipotesi di responsabilità a titolo di concorso morale dei dirigenti di Scientology - sarebbe mancata.

I giudici della Corte di appello sono, invece giunti a conclusioni diverse (pag.213-214 sentenza Corte di appello) in base al ragionamento che si è esposto quando si è trattato del problema del concorso morale; in particolare essi, dopo avere accertato che gli imputati rivestivano un ruolo effettivamente direttivo nell'ambito dell'organizzazione, hanno ravvisato ulteriori elementi idonei a legare sia il "S." che il "M." al caso concreto nelle circostanze che i moduli di assunzione di un nuovo membro dello staff prevedevano un atto di assenso delle persone esercenti la patria potestà, qualora il nuovo assunto fosse un minorenne, e che venivano valutati dai responsabili dell'organizzazione; con la conseguenza che i prevenuti «non potevano non essersi accorti» che la parte lesa era stato attirata dentro l'istituto senza un consenso scritto dei genitori.

Sennonché, ad avviso della Corte, in tal modo la sentenza impugnata viola quei principi indicati quando si è trattato del problema del concorso morale, ed in particolare l'articolo 192 del codice di procedura penale del 1988, perché utilizza una praesumptio de praesumpto al fine di motivare le ragioni della condanna. La questione è stata già affrontata nelle linee generali, qui è sufficiente far rilevare che è solo una presunzione quella secondo cui il "S." ed il "M.", nella loro qualità di dirigenti di Scientology, siano venuti a conoscenza della esistenza del caso "M."; e che da tale presunzione i giudici della Corte di appello sono giunti - con un processo logico che la Corte non condivide per le ragioni prima esposte - alla conclusione che i suddetti prevenuti conoscessero i metodi degli operatori. Né rileva la dedotta circostanza dell'atto di assenso non firmato dai genitori della parte lesa, giacché non è dimostrato che gli imputati avessero avuto cognizione di tale fatto mentre i giudici del merito - sempre sulla base di una praesumptio de praesumpto - hanno dato per scontato che essi non potevano non conoscerlo. In tal senso sono, dunque, fondate le censure mosse dai difensori degli imputati (motivo n. 18, avvocato "L."; motivi nn. 3 e 4, avvocato "P.").

Per quanto concerne la condanna del "F." per il reato di circonvenzione di incapace in pregiudizio di "M. R." (capo di imputazione n. 19), si osserva che le censure mosse dal suo difensore (motivo n. 1, avvocato "P.") vanno accolte per motivi analoghi. Anche in questo caso il Tribunale, infatti, aveva assolto l'imputato, con la motivazione sopra indicata, mentre i giudici della Corte di appello avevano ribaltato la pronuncia ed affermato la sua responsabilità penale, a titolo di concorso morale nel reato commesso dai "C.", ravvisando ulteriori elementi idonei di specifico collegamento tra l'imputato ed il fatto, nelle seguenti circostanze:

  • la filiale di Bergamo era di dimensioni estremamente modeste;

  • essa era, dunque, priva di struttura verticistica ed era retta sostanzialmente dal solo "F.";

  • la parte offesa aveva frequentato quella sede per un periodo di tempo abbastanza lungo, svolgendo anche attività a favore dell'organizzazione (pagina 305 sentenza Corte di appello).

Alla stregua di tali elementi i giudici del secondo grado hanno affermato che «si può trarre la logica conclusione che l'imputato fosse al corrente di tutto quanto avveniva nella sede», e che «non gli potevano essere sfuggite né la situazione familiare del "M." e tanto meno le sue condizioni economiche» (pag. 306 sentenza Corte di appello). Ma anche in questo caso si è in presenza di una evidente praesumptio de praesumpto, inidonea a giustificare, per le ragioni esposte, una condanna penale.

Del pari fondati sono i motivi di ricorso presentati nell'interesse del "V." e del "L." (motivo n. 26, avvocato "L.") avverso la condanna per il reato di circonvenzione di incapace in pregiudizio di "M." (capo di imputazione n. 20). In questo caso i giudici della Corte di appello di Milano hanno ritenuto di poter agganciare gli imputati al fatto, per la circostanza che essi, nella loro qualità di dirigenti di Scientology, avevano autorizzato il viaggio dell'operatore "G." ad Ariano Irpino al fine di accompagnare la parte offesa a ritirare l'eredità paterna e pagare con questa i corsi. E da tale circostanza essi hanno tratto la convinzione che i due prevenuti erano stati «resi preventivamente edotti del caso del "M." e che, approvata la scelta di spingerlo a consegnare all'organizzazione sostanzialmente l'eredità paterna, avevano così dato un indubbio contributo rilevante alla realizzazione del reato di cui all'articolo 643 C.P.» (pag. 246 sentenza Corte di appello).

Ma anche in questa ipotesi, si è in presenza di un ragionamento che, avviso di questa Corte, viola i canoni ermeneutici relativi all'articolo 192, comma 2, c.p.p; ed invero, il fatto che i due prevenuti possano avere autorizzato uno dei loro dipendenti a recarsi fuori sede, per accompagnare qualcuno a ritirare del denaro da versare all'organizzazione può, semmai, rafforzare la presunzione che essi conoscessero il caso "M."; ma da tale presunzione, come si è più volte affermato, non se ne può fare discendere un'altra, e cioè quella della piena conoscenza da parte dei dirigenti dei metodi usati dagli operatori.

Ad analoghe conclusioni ritiene la Corte che si debba pervenire per la circonvenzione di incapace in pregiudizio di "M. G.", di cui al capo 22, per la quale è imputata la "B.". Anche in tale caso, i giudici del secondo grado hanno ritenuto di trovare l'aggancio tra l'imputata, che era una dirigente di Scientology, ed il fatto criminoso nelle circostanze che la donna era presente alle irruzioni fatte dallo zio della parte offesa nella sede dell'organizzazione, che non aveva reagito alle sue contestazioni e che aveva acconsentito alla restituzione della somma di lire 80.000.000 in favore del "M.". Ed ancora va ribadito che i suddetti elementi non dimostrano alcunché, e che sono anzi ancora più equivoci di quelli esaminati nei casi precedenti, potendosi dagli stessi addirittura trarre argomenti a favore della tesi difensiva esposta dal ricorrente (motivo n. 26, avvocato "L.").

Infine, osserva la Corte che sono fondati i motivi di ricorso (motivo n. 9, avvocato "V.") dedotti nell'interesse del "D." e del "P." in ordine ai due reati di circonvenzione di incapace in pregiudizio di "F. R. P." (capo 27 di imputazione). In entrambi i casi i giudici della Corte di appello hanno affermato che per la condanna degli imputati non era sufficiente che costoro fossero stati ai vertici dell'organizzazione, e che era, invece, necessario dimostrare l'esistenza almeno di un ulteriore collegamento tra i due ed il singolo episodio criminoso. E tale collegamento è stato rinvenuto, con riferimento alla circonvenzione di incapace in pregiudizio del "F.", nella circostanza che l'autore materiale del reato era stato autorizzato a compiere una trasferta a Piombino, ove viveva la parte lesa (pag. 309 sentenza Corte di appello); e con riferimento alla circonvenzione di incapace in pregiudizio del "S.", nella circostanza che quest'ultimo aveva frequentato la sede di Scientology, sia pure per pochi mesi, ma in modo assiduo, ed aveva avuto modo di entrare in contatto sia con il "D." che con il "P.", percependo che i due prevenuti «erano in posizione di preminenza» e che «l'organizzazione in questione era di tipo estremamente verticistico» (pag. 258 sentenza Corte di appello).

Sennonché, anche in questi casi - ad avviso di questa Corte - non può che valere il ragionamento fatto per le altre ipotesi di circonvenzione di incapace prese in esame: e cioè che gli elementi suddetti rafforzano la presunzione che gli imputati possono avere saputo dei "casi" "F." e "S.", ma non dimostrano la loro conoscenza delle malefatte degli operatori, che è stata, quindi, desunta dai giudici della Corte di appello sempre in base ad una praesumptio de praesumpto.

Per tutte le fattispecie relative al delitto di cui all'articolo 643 C.P. sopra esaminate, ad avviso di questa Corte, la sentenza dei giudici di secondo grado è viziata, dunque, dalla erronea applicazione dell'articolo 192, comma 2, del codice di procedura penale; e tali vizi impongono l'annullamento del provvedimento, con rinvio del giudizio ad altra sezione della corte di appello di Milano.

2.8.b) Le condanne da confermare

Restano da esaminare alcune ipotesi di circonvenzione di incapace, per le quali sono state irrogate da parte dei giudici di merito condanne che, ad avviso di questa Corte, resistono alle censure dei ricorrenti.

La prima di tali circonvenzioni è quella in pregiudizio della "C." (capo 2), per la quale è stata affermata la responsabilità penale del "C.", della "P." e del "P." (capo 2). I giudici della Corte di appello hanno, peraltro, osservato che la suddetta responsabilità si desume:

  • dalle risultanze della perizia medica, secondo cui la parte offesa è «una donna psichicamente ammalata, e ancora oggi si mostra come psichicamente disturbata»;

  • dalle ammissioni del "C.", circa le condizioni in cui la giovane si era presentata da lui (pagg. 37-39, sentenza Corte di appello);

  • dalle dichiarazioni della stessa "C.", ritenuta perfettamente sincera (pagg. 35-37, sentenza Corte di appello);

  • dalle circostanze che il "P." e la "P." "nella loro qualità di "auditors" avevano avuto modo di rendersi perfettamente conto della degenerata situazione mentale in cui si trovava la parte offesa e delle gravi conseguenze che comportava per lei la sottoposizione ai trattamenti impostile nella sede di Scientology; e che erano stati «proprio loro, dandole ad intendere che le sue allucinazioni erano un segno positivo del buon esito della cura, a crearle le condizioni affinché la giovane chiedesse insistentemente di continuare i corsi» (pag .293, sentenza Corte di appello).

Avverso tali argomentazioni i ricorrenti hanno dedotto il difetto di motivazione, assumendo (motivo di ricorso n.11, avvocato "S."):

  • che la "C." sarebbe inattendibile, perché dotata di una «personalità teatrale, narcisistica, enfatica e tendente ad ingrandire le cose», come del resto avevano rilevato gli stessi periti;

  • e che, proprio i suddetti dati caratteriali avrebbero «dovuto rendere attenta la Corte al rischio della non riconoscibilità dell'eventuale vizio di mente da parte del "C."", e a maggior ragione da parte della "P." e della "P."».

Come è agevole constatare, si tratta di censure con le quali, attraverso la pretestuosa deduzione di un'asserita carenza di motivazione della sentenza di merito, i ricorrenti hanno tentato di ottenere una rivalutazione delle prove, che si risolve in un sostanziale apprezzamento di fatto, escluso come tale nel giudizio di legittimità.

La seconda fattispecie da prendere in esame è la circonvenzione di incapace in pregiudizio del "V." (capo 9), per la quale è stato condannato il "R.", quale autore materiale della stessa. I giudici della Corte di appello hanno desunto la responsabilità dell'imputato da una serie di elementi, dettagliatamente descritti nella sentenza impugnata, uno dei quali consiste nella testimonianza resa da "R. A.", assistente sociale presso l'ospedale psichiatrico "V. S." di Cremona; «era stata la "R.", infatti, a telefonare ai carabinieri, e ad avvertirli che il ricoverato "V. M." era stato avvicinato dal fratello e dal "R.", che volevano ottenere da lui una somma di denaro; la donna, inoltre aveva successivamente riferito che i due fratelli "V." e il "R." "si erano appartati per parlare e che l'argomento della conversazione riguardava la consegna del denaro» (pag. 52, sentenza Corte di appello).

Nel suo ricorso (motivo n. 19, avvocato "L.") il difensore del prevenuto sostiene, invece, il difetto di motivazione della sentenza in ordine al comportamento da quest'ultimo tenuto ed in ordine alla sua idoneità a convincere la parte lesa a porre in essere un atto per lei dannoso, nonché l'inattendibilità della testimone. Ma tale censura è completamente destituita di fondamento: essa si limita, infatti, a prospettare una diversa, e per il ricorrente più favorevole, valutazione delle risultanze processuali, che non può trovare ingresso in un giudizio davanti alla Corte di Cassazione.

Per ragioni analoghe deve essere rigettato il ricorso presentato nell'interesse del "N." per il reato di circonvenzione di incapace in pregiudizio di "G. M." (capo 10). I giudici della Corte di appello hanno, infatti, precisato che «dalla perizia risulta inequivocabilmente che questi era sin dall'inizio affetto da un a depressione così grave da integrare inequivocabilmente uno stato di deficienza psichica», affermando, inoltre, testualmente: «che egli manifestasse chiaramente tale sua situazione e che pertanto questa fosse non solo riconoscibile, ma addirittura ben nota agli operatori lo si deduce chiaramente dal fatto che gli stessi aderenti all'organizzazione avevano vantato con lui i metodi di dianetica per liberarsi dei suoi problemi e per raggiungere uno stato di felicità. Di più; gli operatori per esercitare più consistenti pressioni sul "G." affinché chiedesse un mutuo alla banca, non avevano esitato a fargli presente che qualsiasi dilazione avrebbe potuto creare altri gravi danni nelle sue condizioni, segno che essi erano bene al corrente del suo difficile stato psicologico e agivano proprio su di esso per raggiungere il loro scopo» (pag. 222, sentenza Corte di appello).

Dunque, la censura del ricorrente (motivo n. 20, avvocato "L.") - secondo cui la sentenza sarebbe immotivata sul punto della riconoscibilità da parte del "N." dello situazione di minorata difesa del "G.", anche perché non avrebbe considerato che questi, nel periodo in cui frequentava Scientology, aveva continuato ad insegnare - appare come il tentativo di ottenere una rivalutazione delle prove, e si risolve conseguentemente in una doglianza sul fatto, inammissibile nel giudizio di legittimità.

Del pari censure in punto di fatto sono quelle mosse dal difensore del menzionato "N." (motivo n. 23, avvocato "L.") avverso la condanna dell'imputato e del "T." per il delitto di circonvenzione di incapace in pregiudizio della "G." (capo 14). Il difensore del "N." sostiene, infatti, che la sentenza sarebbe priva di motivazione in ordine alla riconoscibilità da parte dell'imputato della situazione di incapacità in cui versava la parte lesa, e lamenta che i giudici della Corte di appello non abbiano tenuto conto dei risultati della perizia di parte.

Sennonché, ad avviso di questa Corte, la motivazione della sentenza di secondo grado sul punto è ineccepibile. I giudici del merito, infatti, hanno affermato che «è sufficiente leggere la perizia psichiatrica per potere stabilire che la "G.", già affetta all'epoca dei fatti da disturbo narcisistico della personalità, a cui si aggiungevano sofferenze definibili come deficienza psichica, era un tipo di persona non in grado di autodeterminarsi liberamente e facile preda di suggestioni»; ed hanno chiarito, circa alla riconoscibilità di questo stato:

  • c«he la persona offesa aveva affermato di avere preso contatti con l'istituto di Dianetica, in quanto si sentiva molto male e si curava con psicofarmaci»;

  • che la stessa aveva «precisato di avere fatto un così grave sforzo economico per potere seguire le sedute di "auditing" e di "purification", perché queste le apparivano come "l'ultima spiaggia", stante le sue condizioni psico fisiche»;

  • che la "G." era stata sottoposta al test sulla personalità (acquisito agli atti del processo), e che aveva risposto anche a domande riguardanti il suo stato di salute, ed in particolare sulla ricorrenza di stati depressivi;

  • che il "N." e il "T.", nella qualità di operatori che si occupavano della "G." avevano preso visone dei risultati del test (pagg. 31 - 32, sentenza Corte di appello).

Ora, è agevole constatare che la suddetta motivazione indica con piena coerenza logico giuridica gli elementi salienti dai quali i giudici del merito hanno tratto il loro convincimento, e che le doglianze del ricorrente hanno, ancora una volta, lo scopo di ottenere una inammissibile rivalutazione delle risultanze processuali. Sempre con riferimento alla circonvenzione di incapace in pregiudizio della "G.", si osserva che il difensore del "T." ha, invece, censurato il diniego opposto dai giudici della Corte di appello di Milano alla riapertura dell'istruzione dibattimentale, al fine di consentire una ricognizione di persona dell'imputato da parte della persona offesa (motivo n. 14, avvocato "V.").

Sul punto la sentenza impugnata ha, però, resa ampia motivazione, del tutto condivisa da questa Corte. i giudici del secondo grado hanno peraltro evidenziato, con dovizia di argomentazioni, tutte le ragioni che rendevano assolutamente inutile l'esperimento di quel mezzo istruttorio; ed a queste, il ricorrente ha opposto solo una censura generica, limitandosi ad insistere nella sua precedente richiesta, e senza indicare specificamente le ragioni di diritto ovvero gli elementi di fatto che avrebbero dovuto sorreggerla.

Quanto al delitto di circonvenzione di incapace in pregiudizio di "M. R.", si osserva che i giudici della Corte di appello di Milano hanno ritenuto la responsabilità penale dei fratelli "C.", evidenziando che la persona offesa era affetta da infermità psichica, perfettamente riconoscibile, e dimostrando che l'attività svolta dai due imputati aveva indotto il giovane agli ingenti esborsi di denaro a favore di Scientology.

Il difensore dei "C." (motivo n. l avvocato "P.") ha sostenuto, invece, che la motivazione della sentenza impugnata sarebbe carente in ordine alla sussistenza delle cattive condizioni di salute del "M.", mai sottoposto a perizia, ed in ordine alla riconoscibilità della sua eventuale deficienza psichica; e ciò anche perché non aveva considerato che questi era «pur sempre un professore, e che con tale qualifica si era presentato», e perché non aveva tenuto conto delle dichiarazioni rese da "M. G.", il quale aveva riferito che il fratello «solo in alcuni giorni non sembrava normale». Ma proprio sul tema della infermità della parte lesa e della sua riconoscibilità, i giudici della Corte di appello di Milano hanno fornito una motivazione corretta, pienamente condivisa da questa Corte.

I giudici suddetti hanno, infatti, affermato che pur in assenza di una perizia psichiatrica, alla quale la parte lesa non aveva voluto sottoporsi - era emerso dalle deposizioni del professore "P.", medico curante del "M.", che quest'ultimo «era sofferente di disturbi psichici, consistenti in una ideazione delirante mistica, con impostazione di riferimento e conseguente perdita di contatto con la realtà per un marcato meccanismo dissociativo, condizione che - con la frequentazione dei dianetici che gli avevano fatto perdere la cognizione del suo stato di disagio esterno, facendogli altresì rifiutare un rapporto terapeutico era nettamente peggiorata, avendo egli subito una destrutturazione della personalità etero impostagli». (pagg. 46-47, sentenza Corte di appello).

Gli stessi giudici hanno poi evidenziato che «il "M." non solo non aveva rivestito in alcun modo la qualifica di professore, essendosi limitato a lavorare in un laboratorio di elettronica nell'ambito di un istituto tecnico, ma, altresì, che teneva un comportamento tale da rendere evidenti le sue condizioni: il fratello, infatti, lo aveva descritto come una persona che riusciva a ragionare soltanto quando era sotto farmaci (dunque durante la sua frequentazione di Scientology la mancata assunzione di farmaci non poteva che incidere anche sulle sue capacità di ragionamento) e che comunque aveva lo sguardo fisso ed era 'vuoto e distante'» (pag. 48, sentenza Corte di appello); ed hanno, infine, messo in risalto che, in ogni caso, i due imputati erano stati resi edotti delle condizioni in cui il "M." versava, dalla stessa parte lesa, come si desume dalla deposizione resa da "M. G.".

Quanto sopra premesso, appare evidente che nessun vizio logico giuridico è attribuibile alla motivazione dei giudici del merito, e che le censure dei ricorrenti mirano, ancora una volta, ad ottenere una diversa valutazione delle prove, che - come si è più volte ripetuto - non è ammissibile nel giudizio di cassazione.

Procedendo all'esame della circonvenzione di incapace in pregiudizio di "M. M." (capo 20), osserva la Corte che i motivi di ricorso dedotti nell'interesse del "V." - (motivo n. 26, avvocato "L."), e del "G." (motivo n. 6, punto 9, avvocato "D.") sono destituiti di fondamento. Entrambi i ricorrenti sostengono il difetto di motivazione dell'impugnata sentenza, anzitutto, sullo stato psichico delle persona offesa, mai sottoposta a perizia psichiatrica ed avvicinatosi spontaneamente a Scientology.

Sennonché, osserva la Corte che i giudici del merito hanno dato atto di tale ultima circostanza affermando testualmente: «se è vero che era stato lo stesso "M." ad avvicinarsi spontaneamente all'organizzazione sia nel 1981 che nel 1985, è però altrettanto vero che costui, che soffriva di gravi disturbi psichici, che avevano imposto il suo reiterato ricovero a partire dal 1979 (in epoca cioè antecedente al suo primo incontro con il "V."), aveva ricevuto proprio da costui una prima impressione di dianetica come di un sistema per aiutare lo spirito e la mente, che erano proprio i suoi punti dolenti».

Gli stessi giudici, poi, hanno evidenziato che il "M." «si era deciso a riaccostarsi all'organizzazione nel momento in cui si riacutizzavano le sue sofferenze psichiche», che «erano continuati i suoi ricoveri ospedalieri», che a tutto ciò «si era aggiunto il dolore per la morte del padre», ed hanno correttamente affermato che, in queste condizioni, «già l'accoglierlo per fargli seguire dei corsi costituiva un indubbio abuso delle sue condizioni psichiche, che erano evidenti per i suoi continui ricoveri (di cui egli non faceva mistero e che dovevano risultare da qualsiasi formulario dovesse riempire)».

Oltre a tali elementi, infine, i giudici del secondo grado hanno messo in rilievo che i due «operatori avevano indotto l'incapace "M." ad andare ad Ariano irpino a ritirare l'eredità paterna e a consegnarla all'organizzazione per dei futuri e non definiti corsi», come si desume anche dalla circostanza che il "G.", autorizzato dai suoi superiori, accompagnò la vittima in questo viaggio alla ricerca del denaro (pagg. 243-244 sentenza Corte di Appello).

Dunque, la sentenza non è carente di motivazione in ordine allo stato di salute della parte lesa, non sottoposta a perizia - sia detto per inciso - in quanto suicidatasi ed anzi le argomentazioni usate dai giudici della Corte di appello di Milano dimostrano inequivocabilmente che il "M." era un povero malato incapace, e che di lui entrambi gli imputati abusarono, facendogli compiere un grave atto di disposizione del suo patrimonio.

Le altre censure dei ricorrenti alla suddetta condanna (attendibilità del "M."; inidoneità del singolo episodio del viaggio ad Ariano Irpino ad integrare gli estremi dell'attività di induzione; circostanza che il "G." avrebbe incontrato la parte lesa quando questa già aveva deciso di andare a prelevare l'eredita paterna) sono generiche ed in punto di fatto e conseguentemente vanno, del pari, respinte.

Infine, la Corte osserva, con riferimento alla condanna del "P." per il reato di circonvenzione di incapace in pregiudizio di "F. R. P." (capo 25) che il suo difensore ha sostenuto (motivo n. 6, punto 7, avvocato "D.") il difetto di motivazione della sentenza relativamente alla stato di infermità della parte lesa, anche perché i giudici della Corte di appello non avrebbero tenuto conto delle osservazioni del perito di parte.

Ma, anche in questo caso, la motivazione impugnata risulta completa, ed ineccepibile sul piano logico giuridico; ed infatti, i giudici del merito, richiamando le conclusioni dei periti, hanno evidenziato che il "F.", «colpito da paralisi spastica destra accompagnata da disartria, connessa verosimilmente ad un quadro di sofferenza cerebrale perinatale, manifesta tale paralisi per l'andatura, per l'ipofunzionalità del braccio e per il disturbo dell'espressione verbale, condizioni queste che hanno determinato l'instaurarsi di una sofferenza psichica... per il costante senso di inferiorità, di isolamento e di emarginazione»; gli stessi giudici hanno evidenziato, altresì, quanto messo in rilievo dai periti e cioè che, non appena affronta un discorso che «si incentra su temi vicini alla sua malattia, il "F." non ha più meccanismi di difesa funzionari da rendergli possibile almeno la tolleranza a livello emotivo del suo stato morboso».

Conseguentemente i giudici della Corte di appello hanno concluso che «non solo il "F." ha un comportamento sicuramente morboso, quando interagisce con il deficit di critica, tale da integrare gli estremi della deficienza psichica; ma che, inoltre, l'ultima considerazione dei periti, unita al rilievo della stessa persona offesa che il "P." aveva capito questo suo cruccio segreto e lo aveva utilizzato, per persuaderlo a spendere i risparmi propri e dei familiari, dimostra inequivocabilmente che questo imputato - contrariamente a quanto da lui sostenuto - aveva compreso perfettamente i limiti psichici del "F." ed anzi li aveva sfruttati - lusingandolo sulle sue doti intellettuali e sulla capacità di raggiungere mete elevate seguendo i corsi di Scientology - per carpirgli le somme di cui sopra» (pag. 43, sentenza Corte di appello).

Dunque, correttamente è stata affermata la responsabilità penale anche di questo imputato per il delitto di cui all'articolo 643 C.P..

2.9. L'attenuante di cui all'articolo 62 n. 6 C.P.

Va a questo punto preso in esame il motivo di ricorso con cui il difensore del "T." (motivo n. 17, avvocato "V.") lamenta la mancata concessione della circostanza attenuante di cui all'articolo 62 n. 6 C.P. e va subito osservata che la censura è totalmente destituita di fondamento.

Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, infatti, «ai fini dell'applicazione della circostanza attenuante di cui all'articolo 62 n. 6 C.P. è necessario che il risarcimento sia pieno ed integrale e cioè deve comprendere tutti i danni derivanti dal reato, che vanno individuati con gli stessi criteri con i quali si determina il danno ai sensi degli articoli 185 C.P. e 2043 cod. civ.»(Cass. pen. sez. III, 9 aprile 1991, Martinelli). Ebbene, nella specie, come del resto hanno correttamente rilevato i giudici del merito, in qualche caso l'organizzazione di Scientology ha restituito alle persone offese le somme di denaro che queste avevano versate; ma tale restituzione è ben lungi dall'integrare gli estremi di quel pieno risarcimento, di cui alla massima citata, che è presupposto indispensabile per l'applicazione della circostanza attenuante in questione.

2.10 Il trattamento sanzionatorio

Osserva, da ultimo, la Corte che sono completamente destituiti di fondamento i motivi dedotti dai difensori degli imputati (motivo n. 30, avvocato "L."; motivo n. 10, avvocato "D."; motivo n. 18, avvocato "V."; motivo n. 3, avvocato "P.", motivo n. 12, avvocato "S."; motivo n. 5, ricorso "B.", motivo n. 5, ricorso "L.", motivo n. 3, ricorso "C.", avvocato "L."), con cui si lamenta che i giudici della Corte di appello non hanno riconosciuto la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulle aggravanti contestate e che hanno applicato delle pene eccessive.

Ed invero, a parte la genericità di tutti i detti motivi, va rilevato che i giudici del merito hanno fornito adeguata motivazione in ordine alle decisioni da essi adottate sul trattamento sanzionatorio da applicare agli imputati. Essi hanno, infatti, affermato che agli imputati possono essere concesse le circostanze attenuanti generiche «non tanto perché i fatti non siano gravi, dato che l'attività compiuta ai danni di poveri infelici ovvero di genitori disperati e comunque di persone fragili e con gravi problemi esistenziali deve essere in ogni caso stigmatizzata e non godere di particolari benefici, e nemmeno perché gli imputati siano per lo più incensurati, dal momento che in episodi del genere la mancanza o meno di precedenti penali da parte degli autori appare del tutto irrilevante, ma soltanto perché è trascorso un ampio margine di tempo tra quei fatti e l'affermazione di responsabilità».

Ed hanno precisato che «proprio perché la giustificazione della concessione delle attenuanti generiche risiede sostanzialmente nelle considerazione appena espresse, mentre le aggravanti di cui sopra risultano di un certo peso, connotando di particolare gravità gli episodi in questione, si ritiene che in un giudizio di comparazione tra quelle attenuanti generiche e le aggravanti sussistenti si possa pervenire al più ad un giudizio di equivalenza» (pag. 317, sentenza Corte di appello). E tale motivazione appare corretta, ed è condivisa da questa Corte.

Per quanto concerne, invece, i criteri adottati per la determinazione delle singole pene, si osserva che i giudici della Corte di appello di Milano - a parte l'ipotesi dell'associazione per delinquere - hanno quasi sempre applicato i minimi edittali, e che hanno fornito spiegazioni, logiche e convincenti, sulla determinazione della pena in quei rari casi in cui la pena irrogata fosse superiore a tale minimo; dunque, non si ravvisa alcun vizio della motivazione sul punto.

3. Considerazioni finali

Da ultimo, la Corte osserva che l'impugnata sentenza deve essere annullata nei confronti del "D. L.", essendo i reati a lui ascritti estinti per morte dell'imputato; mentre sembra opportuno segnalare che sono state presentate dai rispettivi difensori dichiarazioni di ricorso nell'interesse del "R.", della "B.", e del "G.", ormai deceduti, ma per i quali già i giudici della Corte di appello avevano provveduto alla dichiarazione di estinzione dei reati loro contestati, ai sensi dell'articolo 150 C.P.

Si osserva, infine, che - ai sensi dell'articolo 207 c.p.p. del 1930 - devono essere dichiarati inammissibili i ricorsi del "C." e della "L.", non avendo tali imputati presentato motivi a sostegno dell'impugnazione. I suddetti "C." e "L.", giusto il disposto dell'articolo 549 c.p.p. del 1930, devono essere condannati in solido al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M

rigetta il ricorso del Procuratore generale della Repubblica di Milano nei confronti del "B.", del "C.", della "P.", del "P.", del "T. D.", della "M.", della "B.", del "C.", della "C." e del "T.";

dichiara inammissibile il ricorso stesso nei confronti dei rimanenti imputati;

dichiara inammissibili i ricorsi del "C." e della "L.";

annulla senza rinvio l'impugnata sentenza nei confronti del "D. L." essendo i reati a lui ascritti estinti per morte dell'imputato; nei confronti del "C.", in ordine al reato di cui al capo 40), perché estinto per intervenuta prescrizione, e, relativamente allo stesso reato, nei confronti del "R.", del "C.", della "M.", dell' "A.", della "B.", del "T." e del "D." perché estinto per amnistia;

annulla, altresì, senza rinvio l'impugnata sentenza nei confronti del "B." e del "B." in ordine al reato di estorsione di cui al capo 15), come modificato dalla Corte di appello, per non avere commesso il fatto;

nei confronti del "B.", del "B." e della "LA V.", in ordine al reato di truffa, così qualificato il reato di cui al capo 1);

nei confronti del "C.", del "T. D." e della "M.", in ordine al reato di truffa, così qualificato il reato di cui al capo 2);

nei confronti del "D.", della "G." e del "P.", in ordine al reato di tentata truffa, così qualificato il reato di cui al capo 4);

nei confronti del "T.", del "L.", del "N." e del "R.", in ordine al reato di truffa, così qualificato il reato di cui al capo 11);

nei confronti della "B.", del "R." e del "T.", in ordine al reato di tentata truffa, così qualificato il reato di cui al capo 35), perché estinto per amnistia;

annulla l'impugnata sentenza nei confronti del "B.", della "B.", della "B.", della "B.", del "B.", del "C.", del "C.", del "C.", del "C.", del "C.", del "C.", del "D.", del "F.", della "F.", del "L.", del "L.", della "M.", della "M.", del "M.", della "M.", del "N.", del "P.", della "P.", del "P.", del "R.", del "R.", del "S.", dello "S.", del "T. D.", del "T.", del "T.", del "V." e dello "Z.", in ordine al reato di associazione per delinquere di cui al capo 42);

nei confronti di "T. M." in ordine al reato di estorsione di cui al capo 15);

nei confronti del "S." e del "M.", in ordine al reato di circonvenzione di incapace di cui al capo 6);

nei confronti del "F.", in ordine al reato di circonvenzione di incapace di cui al capo 19);

nei confronti del "V." e del "L.", in ordine al reato di circonvenzione di incapace di cui al capo 22;

nei confronti del "D." e della "P.", in ordine ai reati di circonvenzione di incapace di cui ai capi 25) e 27), con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Milano per nuovo giudizio;

rigetta nel resto i ricorsi degli imputati e condanna il "C." e la "L." al pagamento in solido delle spese del procedimento.

Così deliberato in camera di consiglio, il 9 febbraio 1995.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA, 22 MAG. 1995

(Segue indice, omesso)

La corte suprema di Cassazione, sezione II penale, con ordinanza in camera di consiglio n. 3033 del 7.6-16.6.1995, corregge la sentenza emessa da questa sezione, in data 9 febbraio 1995, nel procedimento n. 30971-94 R.G. a carico di "A. M." e altri, aggiungendo nell'inciso «nei confronti del "C.", del "T. D." e della "M.", in ordine al reato di truffa, così qualificato il reato di cui al capo 2», dopo il nominativo del "T. D.", le parole «della "B."».
Roma, 20 giugno 1995



LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE II PENALE


Composta dagli Ill.mi Sigg.:
Francesco SIMEONE - Presidente
Aldo SAULINO, Luigi BIANCO, Mario SOSSI, Giorgio DI IORIO

ORDINANZA

nel procedimento per la correzione di errori materiali della sentenza n. 163 del 9 febbraio 1995 (procedimento penale n. 30971-94 R.G.).

Letti gli atti processuali ed udita la richiesta del Procuratore generale.

Ritenuto che l'errore lamentato sussiste realmente in quanto, come si desume dalla lettura degli atti, questa Corte ha annullato senza rinvio l'impugnata sentenza, relativamente al capo 2) di imputazione nei confronti di, "C. T.", di "T. D. L.", di "M. A." e di "B. G." e non pure nei confronti di "C. R.", nata a San Pietro di Felleto, il 31 luglio 1937, di "S. R.", nato a Buenos Aires, il 3 luglio 1958 e di "T. L.", nata a Mannedorf (CH), il 24 febbraio 1959, che si trovano nell'identica posizione processuale dei suddetti coimputati.

Ritenuto che nella parte motiva e nel dispositivo della menzionata sentenza i nominativi della "C.", dello "S." e della "T." non sono stati indicati per mera omissione.

Ritenuto che il suddetto errore non determina nullità della sentenza e che la sua eliminazione non comporta una modificazione essenziale della stessa.

Visti gli articoli 130 e 127 c.p.p.; sulle conformi conclusioni del P.G.;

CORREGGE

la sentenza emessa da questa sezione, in data 9 febbraio 1995, nel procedimento n. 30971-94 R.G. a carico di "A. M." e altri, sostituendo: alla pagina 133, la frase «nei confronti della "B.", del "C.", del "T. D." e della "M.", in ordine al reato di truffa, così qualificato il reato di cui al capo 2)» con la frase «nei confronti della "B.", della "C.", dello "S." e della "T.", in ordine al reato di tentata truffa, nonchè nel confronti del "C.", del "T. D." e della "M.", in ordine al reato di truffa, così qualificati i reati di cui al capo 2)»; ed alla pagina 157, l'inciso «nei confronti del "C.", del "T. D." della "B." e della "M.", in ordine al reato di truffa, così qualificato il reato di cui al capo 2», con l'inciso «nei confronti del "C.", del "T. D." della "M.", della "B.", della "C.", dello "S." e della "T." in ordine ai reati di truffa consumata e tentata loro rispettivamente ascritti, così qualificati i reati di cui al capo 2)».

Dispone che della presente ordinanza sia fatta annotazione sull'originale della suddetta sentenza.

Così deliberato in camera di consiglio, il 27 settembre 1995.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA, 18 OTT. 1995

 
 
 
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