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La guerra è finita: ora non ci dimenticate

Il diario di guerra della drammaturga serba più dura contro il regime, ma che non ha voluto lasciare la sua città. Di Biljana Srbljanovic.

Ogni giorno sul quotidiano La Repubblica, dal 28 Aprile 1999. Ripreso da Allarme Scientology, pagine a cura di Martini.

Grazie, Biljana. Ci hai raccontato questa terribile guerra dalla parte della gente comune, con cui è facile identificarsi. Il mondo ha bisogno di persone coraggiose come te. Che non si fanno zittire. Non dimenticheremo.

© Der Spiegel - La Repubblica.

BELGRADO (22 Giugno) - Oggi scrivo l'ultima pagina del mio diario di guerra. La scrivo quando la guerra è praticamente finita, si aspetta solo che il governo della Jugoslavia ammetta con se stesso e con i suoi cittadini che è veramente terminata. Formalmente nel mio paese c'è ancora lo stato di guerra, e a giudicare dal continuo rinvio del regime di una conclusione ufficiale, potrà durare per sempre. Ma nonostante questo, la guerra è veramente finita.

Ed è arrivato il tempo di confrontarci con le sue conseguenze. Non si deve più aspettare, anche perché questo regime avrebbe desiderato che la guerra durasse per sempre, almeno nella testa della gente, una guerra che porta con sé la paura e ostacola ogni progresso, una guerra la cui fine può annunciare cambiamenti pericolosi.

Eppure sembra che dall'altra parte, alla Nato, convenga questo spavento. Confermerà la fondatezza della loro azione, perché la Nato è un'organizzazione militare, e che cosa può fare un esercito senza la guerra? Nonostante tutto, la guerra è finita, e io oggi non voglio più aspettare. Non voglio aspettare nessuna legge statale, nessun decreto militare internazionale, per forzare me stessa, chiudendo qui i miei appunti.

La guerra è cominciata per un pezzo di terra. La guerra tra la Serbia e il resto del mondo si è combattuta per un semplice pezzo di terra, una macchia sulla pianta del mondo, con monti e prati, boschi e miniere, una terra fertile, sterile, semplice, terra pesante come la vita, terra devastata, terra nera. Questa guerra è stata la rapina del territorio, quello stesso che volevano gli uni e gli altri: quelli che hanno vissuto e lavorato su di esso, e ne cercavano la proprietà, e quelli che la proprietà non l'avrebbero mai potuta avere, e volevano ottenerla con la forza.

Il richiamo alla storia si è trasformato nel conto necrofilo dei guerrieri caduti. Sarà possibile portare alla luce questo tesoro storico solo con un'esumazione, con una autopsia gigantesca con cui dal mucchio delle ossa ritrovate si tenterà di separare quelle serbe dalle altre. Quelle stesse ossa che adesso, insieme, servono solo da concime per questa terra disgraziata.

Prima dell'intervento della Nato, il terrore poliziesco esercitato sugli albanesi era terribile. Allo stesso modo, lo spirito vendicativo dei "guerrieri" albanesi ha moltiplicato il numero dei cadaveri. A tutto questo bisognava mettere fine, in nome delle persone pacifiche di entrambe le nazionalità, ostinate nel loro semplice desiderio di vivere. Però, dal primo giorno dello bombardamento Nato gli orrori si sono moltiplicati, il terrore è diventato selvaggio, non si può neanche contare il numero di quelli che sono morti o sono espatriati.

Mentre i convogli dei nostri carri militari colorati di giallo, viola, rosso, di tutti colori - tranne verde-militare - viaggiano sulle strade distrutte della Jugoslavia, a tutti è diventato chiaro come si è svolta questa guerra. Era così che l'esercito si nascondeva sul terreno, si camuffava e come un camaleonte pretendeva di essere tutt'altro che non un esercito, tentava di fondersi con l'ambiente. Provando a gettare polvere negli occhi dell'altro esercito, quello del cielo, che ha usato tantissimi soldi dei cittadini dei suoi paesi per investirli negli armamenti e inventare un mostro tecnologico-militare, un macchinario invincibile che distrugge il nemico con i voli radenti, da una distanza sicura.

Il fatto che i nostri soldati si tingessero di bianco, mettendo qua e là delle macchie nere, e che provassero a muggire imitando le mucche, con l'intenzione di salvarsi la vita (perché le mucche non rappresentavano un "bersaglio legittimo") non ha trasformato il Kosovo nelle Alpi. Il fatto che le bombe della Nato cadessero sulle città, sui civili, sulle strade e sulle centrali elettriche, non ha impedito ai para-soldati di condurre la pulizia etnica che era stata loro ordinata. Il fatto che ci abbiano bombardato non ha portato niente di buono, né a noi che stavamo nelle città, né a quei disgraziati di profughi che per salvarsi la vita sono fuggiti all'impazzata, e soprattutto a quelli fra loro che erano più lenti della morte. E adesso che questa gigantesca maratona bellica è finalmente terminata, in che modo il maratoneta immaginario, che ha visto tutto, può raccontare l'esito finale di quel che è accaduto?

D'altra parte, che cosa noi, le città piene di questi "maratoneti" immaginari possiamo sapere? Che i serbi ritornano in Kosovo in modo ordinato? Ma nessuno ci ha mai informato che hanno lasciato il Kosovo. Da chi e da che cosa sono scappati? Potremmo raccontare che le colonne dei profughi di cui il regime non vuole neanche sentire parlare erano accompagnate da una pioggia di pietre, da sputi e da botte. E che tutto questo avveniva sotto gli occhi di osservatori. Che i due profughi serbi che ieri hanno provato a organizzare una protesta nel centro del Belgrado sono stati arrestati e condannati con procedimento d' urgenza perché non hanno "il permesso di soggiorno nella capitale". Ma come lo potevano ottenere, se fino a ieri hanno vissuto nella "santa terra serba", se fino a ieri hanno provato di rimanere accanto al "secolare focolare serbo"?

Di che cosa posso testimoniare io, un testimone muto, sulle ultime pagine del mio diario di guerra? Che vivo in un paese pieno di boia, rimpatriati dalle quattro guerre precedenti. In un paese di boia vestiti in borghese, che dopo tutto quello che hanno fatto continuano a vivere una vita normale. In un paese dove si tengono negoziati con i boia, mentre le vittime vengono punite cancellandogli il futuro. Che cosa posso dire guardando il mio paese triste, che cosa devo scrivere sulla ultima pagina del mio diario di guerra? Questa guerra per un pezzo di terra mi ha spinto a pensare: di quanta terra ha veramente bisogno un uomo?

Mi sono ricordata oggi di una famosa storia. Una volta in un regno antico venne introdotta una legge che stabiliva che la terra va distribuita in base al seguente principio: ognuno otterrà la quantità di terra che sarà in grado di percorrere in un giorno, dall'alba fino al crepuscolo. Un uomo che desiderava tanta terra all'alba ha iniziato la conquista. Ha camminato facendo un giro sempre più grande, ha camminato sapendo che prima del crepuscolo doveva tornare proprio nel punto da cui era partito. La terra era molto bella, attraente e lui diceva: "Ancora un po', solo questo prato, ancora quel boschetto, solo questo pezzetto..." e si allontanava sempre di più. Quando è iniziato il crepuscolo l'uomo si è affrettato a tornare. Per chiudere il cerchio con i suoi passi, come prescriveva la legge, altrimenti sarebbe rimasto senza la terra promessa. Camminava e camminava, sempre più veloce, correva, e proprio prima della sera ha visto il punto dove doveva arrivare e i suoi governanti, ricchi e oziosi, che si divertivano a guardarlo. L'uomo ha corso con le sue ultime forze, per superare il sole ed è arrivato. È arrivato proprio in tempo per vedere i governanti ridergli in faccia e "generosamente" regalargli il pezzo di terra conquistato. È arrivato in tempo, ma esausto, stanco, stremato dalla conquista della terra. Tanto da potersi soltanto sdraiare su di essa e morire. Mentre lo seppellivano con qualche pugno di terra nera, l'uomo ormai morto ha capito la verità: ecco di quanta terra ha bisogno un uomo. Tanta quanto basta per coprire il corpo e dimenticare l'anima sotto di essa.

Oggi finisco di scrivere questo diario e mi dispiace veramente. Oggi dico addio a tutti e sono veramente triste. Perché scrivendo questo diario mi sono mantenuta in vita. Per giorni, solo per scrivere il diario, sono rimasta con la mente sana. Quando era più difficile, prendevo la scrittura sul serio, come una missione. Con la forza di questi sentimenti decidevo di vivere. E scrivendo ho conquistato complici. La gente che era descritta nel mio diario, la gente che ha letto il mio diario, la gente che usava il tempo delle propria tranquilla vita per comprendere che cosa veramente stava succedendo qui a tutti noi.

Erano pesanti per me quelle notti sotto le bombe, era pesante la paura per la gente che amo, mi pesavano i giorni senza la corrente elettrica e l'acqua corrente, mi pesava la vergogna della mia paura. Avevo la paura della morte, paura delle rappresaglie perché parlavo pubblicamente, avevo paura che la mia paura mi potesse accecare. E adesso che tutto questo è passato, ho solo paura dell'indifferenza.

So benissimo che nessun male può durare per sempre. Il nostro tempo non è ancora arrivato. Ma giratevi e vedrete: il mondo sta cambiando. Lo stiamo cambiando noi, anche se non ne siamo coscienti. E sarà migliore, vedrete.

(Traduzione di Aleksandra Jovicevic)

 
 
 
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